La nascita del Museo di Ugento risale agli anni ’60 del secolo scorso. Nel 1961 la scoperta di una statua in bronzo di età arcaica costituì l’impulso per l’istituzione di una struttura destinata ad accogliere le testimonianze archeologiche della città messapica. La statua, in realtà, venne esposta a Taranto in occasione dell’inaugurazione del Museo Nazionale nel 1963, ma non ad Ugento per la cerimonia del 1968.
Il primo allestimento del Museo di Ugento fu dunque incentrato sull’esposizione di materiali appartenenti a collezioni private cui furono successivamente affiancati reperti provenienti da recuperi occasionali.
A partire dal 1994 la sede del Museo venne stabilita nel Convento dei Francescani. Nel nuovo allestimento trovò spazio la ricostruzione della Tomba dell’Atleta, una struttura monumentale, a semicamera, rinvenuta nel 1970. Essa presenta le pareti interne affrescate a festoni rossi e blu su fondo bianco; il corredo funerario ed i resti antropologici possono essere riferiti a due deposizioni databili nel primo decennio del V ed agli inizi del IV sec. a.C.
Un significativo spartiacque nella vicenda del Museo di Ugento è rappresentato dalla mostra del 2002 “Klaohi Zis. Il culto di Zeus a Ugento” (catalogo a cura di F. D’Andria e A. Dell’Aglio edito da Moscara Associati). Il titolo corrisponde ad una formula messapica di invocazione della divinità che può essere tradotta con l’espressione “Ascolta oh Zeus”. L’importanza dell’evento è legata al fatto che per la prima volta la statua di Zeus veniva esposta nel luogo del suo ritrovamento; inoltre si proponevano la ricostruzione del contesto storico e culturale a cui appartiene il bronzo ed una convincente ipotesi di restituzione del luogo di culto in cui esso era originariamente collocato. Attraverso l’illustrazione dei contesti archeologici, la mostra ha costituito il punto di avvio di un percorso che ha come oggetto la comunicazione dell’archeologia: le idee di Francesco D’Andria, basate sull’analisi dei dati di scavo e sullo studio dei reperti, sono state trasformate in immagini dai disegnatori dello studio Inklink di Firenze: la stampa di gigantografie ha consentito un coinvolgimento fisico, oltre che emotivo, dei visitatori nelle cerimonie sacre che venivano svolte in onore dello Zeus messapico.
Sulla base di questo allestimento è stato successivamente avviato il progetto del Nuovo Museo Archeologico, collegato ai lavori di recupero, valorizzazione e restauro del Convento di Santa Maria della Pietà (arch. Roberto Bozza) e realizzato nel quadro di una stretta collaborazione tra Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia, Comune di Ugento, Università del Salento ed Amministrazione Provinciale di Lecce. La direzione scientifica dell’allestimento è stata seguita dal prof. Francesco D’Andria, sostenuto dall’avv. Massimo Lecci, allora Assessore alla Cultura, oggi sindaco della Città di Ugento.
L’obiettivo dell’esposizione è stato quello di “raccontare” la storia di Ugento, nelle sue fasi cronologiche, e di farla rivivere utilizzando i dati archeologici. In un sistema integrato sono stati utilizzati sia gli strumenti tradizionali degli allestimenti museali – vetrine, pannelli e didascalie – sia forme di comunicazione che rendano i temi della storia e dell’archeologia accessibili ad una comprensione più facile e immediata – illustrazioni, ricostruzioni e plastici, calchi.
Al piano terreno tutta l’area del chiostro, fornita di copertura a vetri e con un sofisticato impianto di climatizzazione, è stata destinata alla ricostruzione della Tomba dell’Atleta. Accanto ad essa sono state sistemate le monumentali lastre di copertura a doppio spiovente ed ogni singolo oggetto del corredo. Il tema delle necropoli dell’antica città di Ozan è presentato anche in altre sale che si aprono sul chiostro: accanto ai tipici corredi messapici caratterizzati da trozzelle e crateri, risalta la presentazione di un nucleo di sepolture di neonati e bambini sistemate su tegole. Viene proposta anche la ricostruzione della deposizione non “ritualizzata” di un individuo, probabilmente uno schiavo morto in maniera violenta ed a cui, dunque, è stata negata una sepoltura formale. Alla documentazione di età messapica si affiancano le testimonianze riconducibili ad età romana, in particolare alle prime fasi del municipium di Uxentum quando si diffonde il rito dell’incinerazione. Una piccola area recintata del II-I sec. a.C. è stata integralmente ricostruita con le olle per raccogliere le ceneri dei defunti ed una tomba a cassa litica in cui era deposto un bambino inumato. Ma ad Ugento il tema dell’archeologia della morte si intreccia strettamente con la possibilità di ricostruire aspetto e dimensioni della città dei vivi. Infatti, le aree di sepoltura si dispongono in prossimità della cinta difensiva e lungo i principali assi viari di attraversamento della città e del territorio. L’archeologia delle necropoli si collega così ad altri filoni della ricerca, quali lo studio del circuito murario del IV e III sec. a.C. e la realizzazione della Carta Archeologica del Rischio.
Le mura sono forse la testimonianza più eloquente dell’importanza di Ozan: 4.900 m di tracciato racchiudono 145 ettari di area abitata, la più estesa tra tutte le città della Messapia. Le ricerche di topografia, coordinate da Giuseppe Scardozzi, hanno consentito di recuperare preziose informazioni anche per lo studio dei paesaggi antichi, tema illustrato attraverso un plastico della città messapica, realizzato dall’arch. Fabrizio Ghio.
L’allestimento museale del primo piano ha cercato di preservare il ricordo delle precedenti destinazioni dell’edificio. Così, numerosi ambienti conservano gli affreschi di tema religioso, mentre nei vani più piccoli sono state mantenute le porte delle celle di detenzione, collegate al periodo in cui il convento fu utilizzato come caserma dei Carabinieri. Nei corridoi sono state mantenute le vetrine del vecchio museo con reperti decontestualizzati che costituiscono un “campionario” di consultazione delle produzioni ceramiche di età messapica e romana.
All’estremità del corridoio principale è posizionata la statua di Zeus, come doveva essere visibile nell’antichità. Insieme ad essa fu rinvenuto un capitello dorico con abaco decorato da rosette, sulla cui faccia superiore è un incavo che corrisponde alla base del bronzo. Il capitello fungeva da coronamento di una colonna dorica di altezza di poco superiore al metro e mezzo. Attualmente sono esposti i calchi sui quali, però, sono stati riprodotti colori e patine dei materiali originali (opera di Murat Cura).
Una sala è destinata all’inquadramento cronologico e stilistico della statua, attraverso la presentazione di alcune terrecotte rinvenute a Taranto che offrono elementi di confronto per attribuire la produzione dello Zeus ad un’officina tarentina attiva intorno al 530 a.C. L’esposizione della statua rappresenta l’occasione per una riflessione sul complesso tema della religione nel mondo messapico. Le ricerche archeologiche hanno infatti permesso di definire in maniera sempre più chiara il sistema dei culti messapici, articolato intorno a figure divine maschili e femminili, con precisi ambiti di competenza e con peculiarità nell’assetto delle aree sacre e nell’organizzazione del rituale. Per questo motivo sono stati selezionati alcuni contesti cultuali che documentano situazioni analoghe a quella in cui si inseriva la statua di Zeus o del tutto differenti ma cronologicamente coeve.
A Leuca, nel luogo di culto presso la Grotta Porcinara, sono documentate iscrizioni con formule di dedica allo Zeus messapico, attestate anche su un cippo rinvenuto a Nardò, ed offerte di oggetti legati alle attività marinare.
Ad Oria, nello stesso periodo in cui ad Ugento esisteva il grande recinto per il culto di Zeus, si sviluppava un luogo di culto dedicato a Demetra. I depositi votivi hanno restituito vasellame utilizzato per pasti sacri e libagioni, statuette in argilla cotta ed oggetti preziosi come le oreficerie, le monete e le fibule in argento e bronzo.
Nel IV e III sec. a.C. culti di divinità femminili sono testimoniati in siti costieri posti lungo la rotta di cabotaggio che da Leuca portava a Taranto. In particolare, numerosi esemplari di terrecotte con la raffigurazione di Artemis Bendis provengono da Madonna d’Altomare e da Torre San Giovanni. Quest’ultimo sito corrisponde allo scalo portuale di Ugento: gli scavi condotti negli anni ’70 hanno riportato alla luce parte delle fortificazioni messapiche oltre agli scarichi legati alle attività commerciali e mercantili.
Appositi spazi del Museo sono stati destinati alla documentazione delle fasi di età preistorica e protostorica e di età medievale. Infine un’ampia sezione è destinata alla collezione numismatica, organizzata sotto la direzione scientifica del prof. Aldo Siciliano.
Attualmente la gestione del Museo è affidata allo Studio di consulenza archeologica di Paolo Schiavano e Doris Ria.
I servizi di accoglienza e le visite guidate del Museo sono erogati attraverso l’acquisto di un biglietto unico che consente anche la visita della Cripta del Crocifisso, una piccola chiesa rupestre con affreschi risalenti al XIII-XIV secolo, e della Collezione archeologica Colosso.
Il Museo di Ugento costituisce ormai una realtà centrale, ben nota ed apprezzata, nel sistema dei Beni Culturali del Salento, aperto a migliaia di visitatori, in particolare nella stagione estiva, ma anche alle scolaresche, che vi svolgono periodicamente attività didattiche e di laboratorio, ed alle esposizioni temporanee di oggetti d’arte.
Autore: Rudy Miggiano