L’Università di Udine nacque come “Universitât dal Friûl” l’8 agosto 1977, per effetto dell’articolo 26 della legge 546, nota come legge per la ricostruzione del Friuli dopo il terremoto del 1976.
Il legislatore, dando forma giuridica, e quindi cogente, alle istanze espresse da un vasto movimento, dapprima elitario poi popolare, iniziato nel 1964, fondò l’Università degli studi di Udine e volle che fosse, a breve termine, uno dei fattori della ricostruzione, a lungo termine un centro di ricerca e di riferimento culturale per rafforzare e dare continuità ai valori identitari del Friuli.
Il testo della legge è soltanto indicativo ma chiarissimo: l’Università degli Studi di Udine deve (non: può, se vuole) essere «organico strumento di sviluppo e di rinnovamento dei filoni originali della cultura, della lingua, delle tradizioni e della storia del Friuli». «Essa ha il fine – specifica il Dpr 102 del 6 marzo 1978 – di contribuire al progresso civile, sociale e alla rinascita economica del Friuli».
Quella di Udine è quindi una Università speciale, nata per scopi bene indicati dalla legge istitutiva, secondo alcune voci critiche disattesi o male perseguiti.
Sono giustificate le critiche e, in particolare, le accuse di “defriulanizzazione” dell’Ateneo? Se fossero del tutto ingiustificate il Rettore uscente non si sarebbe preoccupato di lanciare il “Cantiere Friuli” nel 2018.
Sarebbe tuttavia ingiusto non riconoscere alcuni risultati positivi, ciòè in linea con il testo della legge, ma certo non bastano la schedatura delle opere storiche locali e durante la docenza del professor Tagliaferri, la rivista “Quaderni Utinensi” pubblicata per qualche tempo dalla Facoltà di Lingue o la difficoltosa istituzione nel 1995 del Cirf, Centro interdipartimentale di ricerca sulla cultura e la lingua del Friuli (costretto peraltro all’autofinanziamento!), per dire che qualcosa si è fatto (in quarantadue anni), e non si possono dimenticare gli eccellenti risultati ottenuti dal professor Morgante nel podere sperimentale “Servadei” di Sant’Osvaldo, ma il primo posto spetta a nostro avviso alla professoressa Cassola Guida che, scavando la collina artificiale di Sant’Osvaldo e altri tumuli della nostra pianura, riscrisse la protostoria friulana.
Ora, è proprio il tumulo di Sant’Osvaldo che può essere indicato come un’occasione sprecata dalla nostra Università: rimasto ignoto a 999 friulani su mille, viene aperto soltanto una o due volte all’anno a beneficio di qualche studioso.
Descriviamolo, allora, su queste pagine.
Nel tempo denominato “eneolitico” apparvero in pianura singolari collinette artificiali. Una di queste, che si erge sui Prati della Tomba (toponimo davvero rivelatore), durante la campagna di scavi condotta a partire dal 2000, ha restituito i resti del più antico abitatore del territorio udinese: un maschio di età compresa fra tra i 25 e i 35 anni, alto 1,67 metri, che pesava circa 76 chilogrammi, dotato di grande robustezza muscolare.
A giudicare dall’ampiezza della tomba (trenta metri di diametro) eretta su un dosso naturale che ne accresce la monumentalità, doveva trattarsi del capo di un gruppo insediato in un habitat di prato/pascolo con qualche campo coltivato, fra boschi di querce, ontani e conifere (pino e abete rosso).
L’analisi dei pollini ha consentito di rilevare la presenza degli “indicatori antropici spontanei”, come l’ortica, la piantaggine, il fiordaliso, che mettono radici negli stabili inediamenti umani.
Ultimati i lavori di scavo e di analisi, la professoressa propose e ottenne (al costo di 120 mila euro) di rendere il tumulo visitabile, tramite muri di contenimento coperti da un portellone apribile elettricamente, e per quanto se ne sa si tratta di un caso unico in Italia.
Il tumulo dovrebbe essere, quindi, il fiore all’occhiello dell’Università e della Città che la ospita, ma da diversi anni è una struttura quasi segreta, per i più di ignota ubicazione e difficilmente raggiungibile!
Ecco, dunque, la nostra modesta proposta per il nuovo rettore: apra il tumulo al pubblico, e in particolare alle scuole, perché si tratta di una struttura didattica di inestimabile valore. Non si tratta, infatti, di un mucchio di terra, bensì di una sapiente costruzione a strati leggermente concavi rivolti verso il cielo, che ha resistito agli agenti atmosferici per quaranta secoli.
Autore: Gianfranco Ellero
Fonte: www.messaggeroveneto.it, 19 apr 2019