I musei esteri, e fra questi il Getty Museum di Malibu (Los Angeles, California), sono veri e propri scrigni di tesori provenienti dal Sud Italia, in particolare da quella straordinaria fucina di arte e civiltà che fu la Magna Grecia. I reperti vi sono approdati sia attraverso il legale mercato antiquario, sia attraverso acquisti compiuti per conto dei musei da funzionari senza scrupoli che hanno attinto al mercato clandestino dei tombaroli, la cui attività di scavo è stata quindi incoraggiata spesso con la complicità di affaristi italiani. Soprattutto nei primi anni 2000 alcune di queste opere sono state oggetto di contese internazionali grazie all’iniziativa del governo italiano volta ad ottenenerne la restituzione. Diversi sono stati i successi (basti ricordare, fra gli altri, le restituzioni della colossale statua siciliana della Venere di Morgantina oppure dello splendido Trapezophoros pugliese di Ascoli Satriano), ma numerose sono ancora le opere la cui legittima permanenza all’estero potrebbe essere messa in discussione.
Mesi fa ci siamo occupati della celebre Persefone custodita presso l’Altes Museum di Berlino, la cui origine – sicuramente magnogreca – è contesa dalle città di Taranto e di Locri.
Questa volta vogliamo invece parlarvi di uno straordinario gruppo statuario in terracotta (a grandezza quasi naturale) con tracce di policromia proveniente dalla colonia magnogreca di Taranto e risalente al IV sec. a.C.
La provenienza tarantina, oltre ad apparire indicata nella scheda informativa compilata dal Museo, è sostenuta dagli studiosi Pietro Giovanni Guzzo ed Angelo Bottini che hanno pubblicato l’opera acquistata dal Getty nel 1976. Essa inoltre nel 2006 compariva segnalata in un elenco di 46 opere di cui chiedere la restituzione, stilato dal Ministero dei Beni Culturali, documento nel quale fra l’altro si legge “i confronti con i gruppi monumentali in terracotta rinvenuti nell’Italia centrale e meridionale e le raffigurazioni che abbiamo sui reperti ceramici di produzione apula, che documentano la presenza di statue decorative in terracotta sulle tombe monumentali di Taranto, allontanano qualsiasi dubbio riguardo la provenienza dall’Italia meridionale” (fonte: La Gazzetta del Mezzogiorno del 30/11/2006). L’opera rispecchia in effetti il tipo di terrecotte di grandi dimensioni, originariamente dipinte a colori vivaci, caratteristiche delle colonie greche nel Sud Italia: nonostante infatti la scultura in terracotta fosse presente anche nella Grecia continentale, furono gli artisti delle colonie del Sud ad utilizzarla con maggiore frequenza perché nei loro territori vi era scarsità di pietra idonea alla lavorazione.
Del gruppo fa parte un uomo seduto nel gesto di suonare la lira (purtroppo perduta) e nell’attitudine di intonare un canto, come mostra la sua bocca semiaperta. Diversi studiosi ritengono trattarsi di Orfeo, poeta-cantore nonché iniziato ai sacri misteri, capace com’era di incantare gli animali con la sua musica, di compiere il viaggio dell’anima lungo gli oscuri sentieri della morte e di far ritorno nel mondo dei vivi. Non manca però chi ritiene trattarsi di un comune mortale nelle vesti di Orfeo, magari lo stesso titolare della tomba probabilmente decorata dal gruppo statuario: potrebbe essere stato un poeta o comunque qualcuno vicino alla misteriosa corrente religiosa dell’Orfismo, sorta in Grecia intorno al VI sec. a.C. ma particolarmente diffusa nell’Italia meridionale.
L’uomo è affiancato da due sirene, celebri creature dell’antica mitologia greca che, come riporta l’autore latino Igino (I° sec. a.C.), attento conoscitore delle fonti greche, erano figlie del fiume Acheloo e della musa Melpomene. Di esse racconta che mentre andavano errando dopo il ratto della loro amica Persefone ad opera di Plutone, re dell’Oltretomba, giunsero alla terra di Apollo, e lì per volontà di Cerere furono trasformate in uccelli nella metà inferiore del corpo non avendo prestato soccorso a sua figlia. Tali creature sono senza dubbio legate al mondo dei morti: le troviamo infatti stazionare alle porte dell’Ade col compito di consolare le anime dei defunti grazie al loro dolce canto e di accompagnarle nell’Aldilà, oppure sugli scogli pronte ad attirare con il loro canto irresistibile i marinai verso la morte. Ad esse fu preannunciato che sarebbero vissute finché un viandante fosse passato senza fermarsi al loro canto: quell’uomo fatale sarebbe stato Ulisse, che riuscì a doppiare con la nave le rocce su cui dimoravano, cosicché esse si precipitarono in mare.
In realtà è importante ricordare come già un’altra nave, prima di quella di Ulisse, fosse passata indenne davanti all’isola delle sirene: era quella degli Argonauti, le cui gesta furono narrate da Apollonio Rodio nel III sec. a.C. Fra l’equipaggio partito per cercare il mitico Vello d’Oro troviamo anche Orfeo, il cantore tracio capace col suono della sua lira di tenere a bada le divinità infere così come di incantare le belve feroci e la natura inanimata:
“(…) Anche per gli eroi [le sirene] emisero senza ritegno le loro voci, soavi come gigli,
ed essi già stavano per gettare gli ormeggi sulla spiaggia:
ma il tracio Orfeo, figlio di Eagro, tendendo la cetra
bistonia con le sue mani, fece risuonare le liete note
di una canzone dal ritmo concitato, affinché il suono
dominante della sua musica penetrasse nelle loro
orecchie. La cetra prevalse sulla voce delle fanciulle:
Zefiro, e insieme le onde, sospinsero la nave,
e il loro canto si fece un suono indistinto.”
L’iconografia solitamente ricorrente delle sirene sembra trascurare l’avventura argonautica di Orfeo, con le sole eccezioni note di questo gruppo statuario del Getty Museum e di un vaso attico di inizio VI secolo a.C. dal soggetto però difficilmente identificabile.
Passando ad osservare le due sirene (alte 1,40 m), figure ibride di donne-uccello, gli studiosi hanno evidenziato come quella a sinistra incarni il prototipo della cosiddetta sirena trauernde (termine tedesco per indicare l’atteggiamento della mestizia), tipologia che sembrerebbe nata proprio a Taranto comparendo in questo gruppo scultoreo e nei capitelli corinzio-tarantini figurati. Il gesto della Sirena trauernde riconduce alla sofferenza e al pianto per la morte di persone care, stati d’animo vissuti in modo riflessivo e contenuto, senza aperta e conclamata disperazione.
La figura a destra è invece quella di una sirena musizierende (termine tedesco usato in archeologia per indicare la sirena musicante), il gesto delle cui mani allude alla presenza di uno strumento musicale a corda, anche in questo caso andato perduto. Si ritiene che questo soggetto funerario possa forse essere messo in connessione con un suggestivo passo dell’Elena di Euripide, tragedia portata in scena la prima volta nel 412 a.C. – quindi negli stessi anni della diffusione del soggetto medesimo – passo nel quale la protagonista, dopo aver appreso quanto avvenuto a Troia, sopraffatta dal dolore, pronuncia questa solenne invocazione: “Fanciulle alate, vergini figlie di Chtonos, Sirene, unitevi al mio lamento, portando il flauto libico, o la zampogna di Pan, o le cetre, rispondete con lacrime alle mie grida lugubri; dolori con dolori, canti con canti; Persefone mandi cori di morte che si accordino coi miei canti funebri: in cambio io invierò nelle dimore notturne un peana di lacrime per gli uomini caduti in battaglia”.
AGGIORNAMENTO 1 NOVEMBRE 2019, a cura della Redazione di Famedisud:
Durante la visione della trasmissione RAI “Petrolio – Ladri di Bellezza” del 8/12/2018 (disponibile sulla piattaforma Raiplay), un’inchiesta giornalistica di Duilio Giammaria che ricostruisce l’organigramma criminale preposto al traffico internazionale di reperti archeologici trafugati in Italia, vengono mostrate alcune polaroid sequestrate nel 1995 all’antiquario romano Giacomo Medici (nel 2011 condannato in Cassazione a 8 anni e a 20 milioni di provvisionale per danni al patrimonio storico e artistico), foto con le quali – secondo gli inquirenti – documentava oggetti prima del restauro, spesso appena estratti dal terreno; immagini che in mancanza di diari di scavo, avrebbero – sempre secondo gli inquirenti – costituito la garanzia di autenticità del “pezzo”. Fra queste immagini si nota appunto la statua dell’Orfeo di Taranto. Quindi, qualora fossero fondate le deduzioni fatte a suo tempo da magistrati e forze dell’ordine su varie di quelle foto (escluse quelle poi dissequestrate perché “il fatto non sussiste”), la provenienza illecita dell’Orfeo potrebbe (il condizionale è d’obbligo) risultare documentata, nonostante il Getty Museum dichiari sul suo sito di aver acquistato l’opera nel 1976 dalla banca privata di Zurigo Bank Leu, A.G. In altri termini ci troveremmo presumibilmente di fronte a un caso molto più semplice di quello dell’Atleta di Fano, attribuito a Lisippo, sulla cui restituzione da parte del Getty la magistratura italiana si è già espressa in termini definitivi e positivi.
Perché allora nessuno si interroga sull’Orfeo ancora esposto nelle sale del Getty?
I Tarantini e gli italiani tutti sarebbero felici di avere una risposta.
Bibliografia:
– Bottini A. – Guzzo P. G., Orfeo e le Sirene al Getty Museum, in «Ostraka» II 1 (1993), pp. 43-52
– Ferrarini M. – Santoro S., Le sirene di Durazzo tra Grecia, Magna Grecia ed Illiria, in L’Illyrie méridionale et l’Epire dans l’antiquité V (Vol. 2°), Actes du V colloque international de Grenoble (10-12 ottobre 2008), ed. De Boccard
– Ferrarini M. – Santoro S., Circolazione di temi iconografici nella scultura funeraria ellenistica di Dyrrachion/Dyrrachium: il caso delle sirene, in Eidola n. 6 del 2009, Pisa-Roma, Fabrizio Serra editore, 2010
– Santarelli C., Orfeo, Ulisse e le Sirene: storia di una sconfitta di genere, in Gli Spazi della Musica, Vol. 2°, N° 1 (2013), Università di Torino.
Fonte: famedisud.it, 9 nov 2015