Centinaia di migliaia di dollari spesi per appropriarsi di opere indebitamente, acquistando reperti antichi trafugati. È solo l’ultimo dei problemi di “gestione” – uno per tutti, i tour costosissimi che l’ex presidente del trust Barry Munitz faceva a spese della fondazione – che ha investito il colosso Paul Getty, fondato nel 1953 dal petroliere e collezionista omonimo, oggi diviso in due mega-centri: la sede di Malibu, in restauro e di imminente riapertura, ospiterà la mostra permanente di antichità (se non verranno poste sotto sequestro) mentre il nuovo edificio di Los Angeles, inaugurato nel 1997 su progetto di Richard Meier, accoglierà collezioni più moderne.
Marion True, curatrice del Paul Getty Museum, accusata dalla giustizia italiana di aver condotto le trattative per accaparrarsi capolavori (in quanto responsabile del settore acquisti) è stata costretta ieri alle dimissioni per un fatto apparentemente “marginale”. Avrebbe ottenuto nel 1995 un prestito di 400mila dollari per comprare una casa in Grecia, grazie alla mediazione di un avvocato presentatole da un mercante d’arte che riforniva il museo, cadendo in un «conflitto di interessi» (la politica amministrativa del museo chiede ai suoi impiegati di fare un resoconto su ogni transazione, specialmente quelle in odore di conflitto).
In realtà, Marion True lascia il suo posto in vista del processo che il 16 novembre prossimo si terrà in Italia e che vede la manager sul banco degli imputati per traffico illegale di reperti. Il museo privato californiano ha ingaggiato una squadra di avvocati per la propria difesa e quella della sua curatrice ma, secondo quanto riportato dal Los Angeles Times – che sta seguendo l’inchiesta aperta dal ministero della giustizia in cui si denuncia la dubbia provenienza dell’intera collezione del Getty dopo che documenti interni scottanti hanno rivelato che i responsabili del museo dal 1985 possedevano informazioni sui traffici d’arte – non è chiaro se il museo continuerà a assicurarle il suo appoggio. Da quando True è salita sul podio del museo di Malibu, il Getty ha arricchito la sua collezione con reperti archeologici per un valore di 30 milioni di dollari, beni che recuperava attraverso la mediazione del mercante d’arte di Londra Robin Symes e il suo socio Christo Michailidis. Molti di questi pezzi però, sostiene l’accusa italiana, provenivano dalla clandestinità. Mentre il Getty è nella bufera, il nostro ministro per i beni culturali, Rocco Buttiglione, gongola – a giorni torneranno in Italia un cratere del pittore di Paestum Asteas, un’epigrafe greca da Selinunte e un candelabro etrusco. Il tutto sotto forma di “donazione” (siglata sotto Urbani), senza ammissione di colpa da parte del museo californiano. Per il resto, deciderà la magistratura e si attende la sorte di 42 pezzi romani e etruschi usciti da scavi illeciti e di circa 5mila reperti che costituiscono il deposito del Getty. Fra le star richieste, figura il Lisippo di Fano, l’atleta greco ripescato nel 1964 da una imbarcazione fanese, il Ferri-Ferruccio. La statua però potrebbe essere arrivata al Paul Getty dopo un passaggio in Svizzera per essere “ripulita”, procedura consueta negli acquisti illegali, e bisognerà quindi dimostrare il suo ritrovamento in acque italiane. Già nel 1999 il museo californiano restituì diversi pezzi: il più importante era un vaso, un kylix di Eufronio trafugato a Cerveteri (ora al museo di Valle Giulia), comprato nel 1986 per dieci miliardi di vecchie lire.
Per quanto riguarda il processo di novembre, Italia Nostra ha fatto sapere che si costituirà parte civile, considerando questo un caso storico, “la madre di tutti i processi per l’archeologia rubata”. L’ex curatrice Marion True dovrà rispondere davanti alla sesta sezione del tribunale penale di Roma di associazione a delinquere (è accusata insieme all’intermediario svizzero Emanuel Robert Hect), ricettazione, reati specifici relativi al commercio di beni archeologici e omessa denuncia di reperto. Secondo gli inquirenti, la curatrice sarebbe stata a conoscenza della provenienza dei pezzi acquistati, refurtiva del trafficante italiano Giacomo Medici, residente a Ginevra, che il 4 marzo scorso, per la medesima vicenda, è stato condannato a dieci anni di reclusione e al risarcimento danni in favore del ministero dei beni culturali di 10 milioni di euro.
Fonte: Il Manifesto 04/10/05
Autore: Arianna Di Genova