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U.S.A. Doriforo di Stabiae. Trafugato in Campania nel 1976, si trova a Minneapolis.

doriforo

E’ trascorso meno di un anno dalla conferenza “Il Doriforo da Stabiae – Alla ricerca di un mito” organizzata a Castellammare di Stabia (Napoli) dalla sezione locale dell’Archeoclub, con la partecipazione di vari studiosi che hanno illustrato i dati in loro possesso su un capolavoro dell’antichità, il Doriforo di Stabiae, ritrovato nel 1976 nel territorio dell’antica città vesuviana e databile tra la fine del II e la prima metà del I sec. a.C.
Sulla bellissima scultura stabiana, oggi detenuta dal Minneapolis Institute of Art (USA), tornano finalmente a riaccendersi i riflettori – questa volta a livello istituzionale – grazie all’iniziativa della senatrice Margherita Corrado che ha deciso di presentare un’interrogazione parlamentare al Ministro dei Beni Culturali in carica, Dario Franceschini, chiedendogli “se non ritenga di voler attivare i canali opportuni per sollecitare il Minneapolis Institute of Art a fornire informazioni precise e veritiere circa tempi e modi dell’acquisizione della statua, nonché dare impulso, nei limiti delle sue prerogative, alla verifica attenta di tutti i dati disponibili e, ove si diano le necessarie condizioni, alla rivendicazione della scultura per conto dello Stato italiano con la necessaria determinazione”.
Il Doriforo di Stabiae è una splendida scultura in marmo pentelico (lo stesso usato per il Partenone di Atene) di 196 cm. ed è considerata una delle migliori riproduzioni romane ancor oggi esistenti del celebre Doriforo, l’originale in bronzo dello scultore greco Policleto, opera purtroppo perduta ma nota per esser stata il modello ideale della statuaria classica quanto ad armonia e perfezione delle proporzioni.
La copia romana oggi forse più famosa è però quella ritrovata a fine ‘700 presso la Palestra Sannitica di Pompei ed esposta al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dove incanta il pubblico con tutta la sua mirabile bellezza. In Italia non mancano tuttavia altri esemplari, purtroppo molto restaurati, come quelli degli Uffizi di Firenze e dei Musei Vaticani.
Tradizionalmente si ritiene che l’opera rappresenti un eroe – forse il mitico Achille, vincitore dei Troiani e summa di tutte le virtù virili e militari dei Greci – nell’atto di portare una lancia nella mano sinistra (da qui il nome di Doriforo), ma non manca chi, come Vincenzo Franciosi, docente presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, pur confermando la paternità policletea del modello, ritiene si tratti di Teseo, portatore di uno scudo al braccio sinistro e di una spada nella mano destra. A suo avviso, infatti, una lancia sul lato sinistro sarebbe stata in contraddizione con il magistrale equilibrio voluto dall’autore del modello, senza trascurare altri indizi che, a suo avviso, porterebbero al mitico eroe ateniese.
La vicenda del Doriforo di Stabiae, così come quella di tanti altri beni culturali finiti nelle maglie del traffico illecito internazionale di opere d’arte, ha i connotati di un giallo le cui dinamiche ed i cui responsabili (almeno alcuni di essi) sembrano però essere tutt’altro che ignoti. Secondo quanto venne ricostruito in vari articoli tra cui uno dettagliato di Antonio Guastella pubblicato su Il Messaggero del 14 settembre 1981 e corredato di immagini della testa e dell’estremità inferiore della scultura prima della ricomposizione, essa fu ritrovata nel 1976 in Campania nell’area dell’antica Stabiae, sul ciglio della collina di Varano, in un cantiere edile purtroppo non sorvegliato dalla Soprintendenza ma posto nei pressi della nota Villa del Pastore; un sito dal quale, come successivamente appurato, sarebbero spariti anche altri reperti.
Secondo le cronache del tempo, dopo il suo ritrovamento l’opera non fu consegnata alla Soprintendenza Archeologica della Campania, ma finì nelle mani di un antiquario romano, attivo sul mercato clandestino di opere d’arte. Fu proprio attraverso i rodati canali di quel mercato, il cui snodo principale era la Svizzera, che nel 1980 il Doriforo comparve improvvisamente in Germania, esposto al pubblico dell’Antikenmuseum di Monaco di Baviera e accompagnato da una didascalia che faceva riferimento alla provenienza stabiese. Come ricostruito dal noto archeologo Umberto Pappalardo, docente dell’Università di Napoli ‘Federico II’, in un articolo apparso sul mensile Archeologia Viva del 2001 (n. 87), in quella occasione “l’opera venne orgogliosamente esibita come la migliore replica a noi nota del celebre capolavoro dell’artista di Argo, più bella ancora della copia di “doryphoros” proveniente dalla Palestra di Pompei esposta al Museo Nazionale di Napoli”.
Intanto in Italia, nel marzo dello stesso anno, usciva un servizio filmato del giornalista Achille D’Amelia (per il supplemento TG2 “Dossier”) dall’inequivocabile titolo L’emigrato di pietra, comprensivo di testimonianze inequivocabili sul caso stabiese. Appena la notizia della provenienza illecita della scultura assunse i toni dell’ufficialità, rimbalzando dai media italiani a quelli europei (ne parlarono tra gli altri Il Resto del Carlino e il tedesco Frankfurter Allgmeine Zeitung), il museo di Monaco – che contava di acquisire l’opera in virtù di una sottoscrizione pubblica per una cifra di circa 6 milioni di marchi, pari, al cambio di allora, a circa 3 miliardi di lire – decise di rinunciare all’acquisto.
La statua venne così restituita al mercante e da allora scomparve nel nulla, come se si fosse smaterializzata, e ciò almeno fino al 1986, quando riapparve nel Minnesota (USA), al Minneapolis Institute of Art. Questa volta la didascalia riportava che la statua era stata trovata agli inizi degli anni Trenta “in the sea off Italy”, chiara allusione alle acque internazionali, il riferimento alle quali avrebbe dovuto presumibilmente mettere al riparo da eventuali rivendicazioni. Questa nuova collocazione del reperto è passata a lungo sotto silenzio, dato che gli studiosi si sono per lo più dedicati alla ricostruzione delle sue vicende più antiche, giungendo alla conclusione che in origine la statua adornasse l’abside di un edificio destinato a uso di ginnasio, posto al centro del pianoro di Varano e corrispondente alla cosiddetta Villa del Pastore. Alla statua fu anche dedicato un simposio internazionale nei cui atti compare un contributo di Hugo Meyer, che la fa risalire alla media età augustea, ne pone in rilievo le affinità stilistiche con un’altra opera campana, il cosiddetto Diomede di Cuma, e la definisce più bella del Doriforo di Napoli, in quanto il giovane raffigurato vi appare, a suo avviso, più slanciato e virile.
Intanto a Minneapolis, dopo un accurato restauro, la statua – racconta ancora il prof. Pappalardo – continuò ad essere esposta con i più alti onori, come opus nobiliore, e lì ancora il pubblico può ammirarla in tutta la sua bellezza, nonostante non abbia l’integrità della statua ”gemella” custodita al Museo di Napoli. Il Doriforo di Stabiae risulta infatti privo di una parte del braccio sinistro, delle dita della mano destra, del naso e di parte del piede destro. A tal proposito – come auspicato anche da Pappalardo – c’è da sperare che in futuro uno di tali elementi mancanti, “– se mai sarà rinvenuto sul posto o comunque reso pubblico – potrà costituire la prova inconfutabile non solo dell’originaria provenienza da Stabia della preziosa scultura, ma forse anche del luogo esatto del suo rinvenimento”.
Fare luce sulle vicende di questa statua – come ha sottolineato Massimo Santaniello, presidente Archeoclub «Stabiae» di Castellammare di Stabia – serve “non solo far conoscere al pubblico una delle testimonianze più grandiose dell’archeologia stabiana, ma allo stesso tempo riaccendere i riflettori su una pagina della nostra storia troppo a lungo lasciata nel dimenticatoio”. C’è da augurarsi infatti che la recente iniziativa della senatrice Corrado serva a stimolare il governo italiano a pretendere dal museo americano l’accurata verifica di quelli che sembrano essere forti indizi di illegittimità nel trasferimento della scultura negli Stati Uniti; operazione da farsi avvalendosi di tutti gli elementi emersi già al tempo della mostra tedesca del 1981 oltre che di altri significativi indizi che potrebbero essere restituiti dal territorio stabiese alla luce di nuovi scavi.

Fonte: www.famedisud.it, ottobre 2020

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