L’arrivo dell’uomo in Sud America e le dinamiche che ne hanno portato al popolamento antico sono molto più complesse di quanto si era ipotizzato fino ad oggi, a causa di molteplici migrazioni da nord verso sud ma anche di movimenti in senso opposto, verso le regioni dell’America Centrale. A rivelarlo è uno studio guidato da ricercatori del Laboratorio di Antropologia Molecolare dell’Università di Bologna, che ha analizzato il genoma di oltre duecento individui rappresentativi di popolazioni native americane del Messico, delle Ande, della Foresta Amazzonica e dell’Argentina.
I risultati – pubblicati sulla rivista Molecular Biology and Evolution – hanno permesso di individuare componenti di ancestralità specifiche che caratterizzano il DNA di tre diversi macro-gruppi di popolazioni del Sud America. Rivelando inoltre che la variabilità genetica delle popolazioni sudamericane attuali è stata notevolmente influenzata anche dalle diverse storie demografiche dei gruppi che vivono a est e a ovest della cordigliera delle Ande.
Oggi sappiamo che l’uomo ha avuto origine nel continente africano e si è spostato nel corso dei millenni in Europa e in Asia. Ma come è arrivato a popolare l’America? Studi sul DNA delle popolazioni amerindiane avevano già rivelato che la nostra specie è arrivata nel Nord America dall’Asia orientale attraverso lo Stretto di Bering, probabilmente nel corso di tre diverse ondate migratorie, la più antica delle quali risale a circa 16.000 anni fa.
“Questa prima migrazione sarebbe stata responsabile di una rapida espansione umana dal Nord al Sud America”, spiega Davide Pettener, docente dell’Università di Bologna, tra i coordinatori dello studio. “Un’ipotesi che è supportata anche dalla presenza, nelle regioni meridionali del continente, di siti archeologici tra i più antichi finora scoperti nelle Americhe, risalenti a quasi 14.000 anni fa”.
Sapere però con precisione in che modo e con quali tempi è avvenuto il popolamento del Sud America è stato fino ad oggi molto problematico, per due ragioni. Da un lato a causa della difficoltà di estrarre DNA sufficientemente integro dai reperti antichi rinvenuti nei siti archeologici di quest’area geografica e dall’altro perché i complessi cambiamenti demografici avvenuti dopo la colonizzazione europea (dal XV secolo) e dopo la tratta degli schiavi africani (tra il XVI e il XIX secolo) hanno modificato il genoma delle popolazioni amerindiane moderne.
“In molti casi, il DNA di queste popolazioni appare oggi come il risultato di un mescolamento recente di componenti genetiche anche non-native americane”, dice Marco Sazzini, docente dell’Università di Bologna e corresponding author dello studio. “Ciò complica notevolmente la possibilità di inferire la storia precedente alla colonizzazione europea, cosa effettivamente fattibile solo basandosi sulle porzioni del DNA che non sono state modificate da questo mescolamento”.
Per risolvere questo problema, i ricercatori hanno analizzato il genoma di più di duecento individui rappresentativi di popolazioni native americane del Messico, delle Ande, della Foresta Amazzonica e dell’Argentina, campionati nel corso di diverse spedizioni sulla base di stringenti criteri biodemografici e antropologici. “In questo modo – continua Sazzini – abbiamo potuto focalizzare l’attenzione su soggetti caratterizzati da un bassissimo livello di mescolamento ‘post-colombiano’, rendendo possibile, per la prima volta attraverso l’utilizzo di dati genomici, la ricostruzione degli eventi più antichi responsabili del popolamento del Sud America e delle relazioni ancestrali esistenti tra le popolazioni native che lo abitano”.
Nonostante le difficoltà nel trovare campioni adatti e nonostante la ridotta diversità genetica di questi gruppi umani, conseguenza del popolamento relativamente recente delle Americhe, i ricercatori sono riusciti ad individuare nuovi importanti indizi. Innanzitutto, distinguendo tre macro-gruppi di popolazioni in base a componenti di ancestralità specifiche presenti nel loro DNA: quelle dell’America Centrale, quelle andine di Perù e Bolivia e quelle amazzoniche di Brasile e Perù, a cui si aggiungono anche i gruppi Wichi che abitano il Gran Chaco argentino.
Inoltre, i dati analizzati hanno permesso di definire il quadro delle diverse migrazioni che si sono susseguite nei millenni in Sud America. “L’ipotesi di un’unica espansione unidirezionale dal Centro America verso sud da parte di antenati comuni sia alle popolazioni andine che agli altri gruppi sudamericani non è sufficiente a spiegare i pattern di variabilità genetica osservati nelle popolazioni attuali”, spiega Stefania Sarno, primo autore dello studio. “Il quadro che emerge – continua Guido Alberto Gnecchi Ruscone, primo co-autore della ricerca – è invece quello di molteplici migrazioni dirette verso il Sud America che si sono susseguite nel tempo, verosimilmente accompagnate anche da movimenti di popolazioni in senso opposto, cioè dal Sud verso il Centro America, che hanno coinvolto principalmente i gruppi non andini”.
Ma non è tutto. La variabilità genetica delle popolazioni sudamericane attuali, infatti, risulta anche essere il frutto delle diverse storie demografiche sperimentate, in epoca più recente, dai gruppi che vivono a est e a ovest della cordigliera delle Ande. Il diverso contesto ambientale e gli eventi storici che si sono susseguiti nei secoli hanno infatti contribuito a plasmare in modo diverso il patrimonio genetico dei gruppi etnici che popolano le Ande e la Foresta Amazzonica. Ad esempio, mentre le popolazioni messicane del Centro America e quelle andine hanno dato luogo, in epoca pre-colombiana, a straordinarie civiltà come quella Maya e Inca, i gruppi etnici che abitano l’Amazzonia sono stati da sempre rappresentati da tribù formate da pochi individui e isolate tra loro, mantenendo così una ridotta variabilità genetica.
La ricerca, finanziata dalla Comunità Europea nell’ambito del progetto ERC Advanced Grant LANGELIN e condotta presso il Laboratorio di Antropologia Molecolare del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna, è stata pubblicata sulla rivista Molecular Biology and Evolution con il titolo “Dissecting the Pre-Columbian genomic ancestry of Native Americans along the Andes-Amazonia divide”.
Allo studio hanno contribuito numerosi ricercatori del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna: Stefania Sarno e Guido Alberto Gnecchi Ruscone (attualmente post-doc presso il Max Planck Institute for the Science of Human History di Jena), che hanno firmato il lavoro come primi autori, oltre a Sara De Fanti, Cristina Giuliani, Alessio Boattini, Marco Sazzini e Davide Pettener.
Sempre per l’Università di Bologna hanno collaborato anche Donata Luiselli ed Eugenio Bortolini del Dipartimento di Beni Culturali e Zelda Franceschi del Dipartimento di Storia Culture Civiltà. Inoltre, hanno partecipato Tullia Di Corcia e Olga Rickards dell’Università di Roma Tor Vergata, Patrizia di Cosimo, Claudio Franceschi e ricercatori di università peruviane e spagnole.
Fonte: www.lescienze.it, 16 apr 2019