L’Espluga de Francolí (Spagna). Finora conosciuto per i vigneti e le cantine moderniste di Pere Domènech i Roura (figlio del più famoso Lluís Domènech i Montaner), L’Espluga de Francolí è sotto le luci dei riflettori grazie all’inaspettato ritrovamento nella Cova de la Font Major di un santuario paleolitico di circa 15mila anni fa, il più antico trovato finora in Catalogna.
La sorprendente scoperta è coincisa con la tromba d’acqua e gli smottamenti di terra dello scorso 22 ottobre che hanno causato gravi danni alla regione.
«È come se per ripagarci della catastrofe la natura ci avesse permesso di riportare alla luce uno spazio sorprendente con più di un centinaio d’incisioni con simboli e segni astratti e rappresentazioni figurative di animali, principalmente cervi, cavalli e buoi», afferma il responsabile della scoperta Josep Maria Vergès, ricercatore dell’Università Rovira i Virgili di Tarragona.
Secondo il professore «si tratta di uno dei quattro insiemi più significativi della cosiddetta provincia paleolitica mediterranea e già si considera una pietra miliare nella storia dell’archeologia catalana, sia per la quantità che per la qualità delle rappresentazioni», assicura Vergès, che ha realizzato numerose campagne di scavo in diverse località italiane e dall’anno scorso forma parte di un’équipe mista di archeologi dell’Università di Palermo e dell’Iphes (Istituto Catalano di Paleoecologia Umana ed Evoluzione Sociale) che scava nelle montagne a ridosso di Cefalù.
E continua: «Le grotte hanno un equilibrio termico che permette di lavorare anche d’inverno e stavamo facendo dei sondaggi per valutare il potenziale della Cova de la Font Major. Considerata una delle grotte in conglomerato più lunghe del mondo, fu scoperta nel 1853 e grazie alle indagini e ai reperti archeologici trovati negli ultimi decenni, sappiamo che è stata usata dall’uomo in tutte le epoche, ma ignoravamo che ci fosse qualcosa d’interessante anche perché da anni è una delle più visitate della Catalogna», assicura Vergès, ricordando che si tratta di una grotta musealizzata da circa 25 anni che ha ricevuto più di un milione e mezzo di visitatori.
Il professore ha realizzato casualmente la scoperta il 30 ottobre scorso, ma la notizia è stata mantenuta in segreto per più di tre mesi, in attesa di realizzare tutte le analisi necessarie.
«Quella mattina sono arrivato alla grotta e ho trovato i miei collaboratori sorpresi perché da una cavità era apparso un gruppo di gente, turisti d’avventura che avevano percorso una galleria laterale sconosciuta fino a quel momento» racconta Vergès che più per curiosità che per convinzione si è infilato nell’apertura.
Immediatamente si è reso conto di essere di fronte a una scoperta sensazionale: «Nella parte alta vi erano rappresentazioni che avevo visto in altri santuari, sulle pareti dirigendo una luce non diretta ho scorto subito un magnifico cavallo del Magdaleniano, un periodo del Paleolitico superiore. La sorpresa è stata enorme anche perché essendo di conglomerato, molto rugoso, non si presta alle incisioni, quindi non ci aspettavamo di trovarne e men che meno dopo tanti anni di scavi» ammette, sottolineando che le incisioni sono state eseguite in un’area ricoperta di limo sabbioso.
Purtroppo si tratta di un materiale molto delicato e i disegni rischiano di essere danneggiati o addirittura cancellati al minimo contatto, per cui tutta la zona è stata immediatamente chiusa al pubblico. «Sappiamo che questi itinerari sono stati percorsi da più di 200mila persone che, ignare della loro esistenza, hanno danneggiato diverse figure», prosegue Vergès che dirige un team incaricato di documentare il santuario nei minimi dettagli in tecnologia 3D per consentirne lo studio e per produrre i materiali che permettano di costruire un nuovo discorso museografico intorno a questa scoperta.
«Adesso, conclude Vergès, dobbiamo decidere se costruire una copia fisica o renderla accessibile attraverso la realtà virtuale. In questo caso il visitatore potrà indossare gli occhiali all’entrata della grotta e la temperatura e gli odori del luogo contribuiranno ad amplificare l’esperienza».
Autore: Roberta Bosco
Fonte: Il Giornale dell’Arte, numero 406, marzo 2020