Tutti sanno che dell’alienabilità dei beni culturali si parla da molti anni. Sicuramente dalle due Finanziarie del 1997 e 1999 (quest’ultima legge diede poi vita al regolamento n. 283/2000).
Il Codice Urbani conferma e rafforza la disciplina dei regolamenti perché:
a) individua i beni sottratti in modo assoluto alla possibilità di vendita, aumentando le tipologie di beni inalienabili già individuate dal regolamento del 2000. Infatti, a quelle già previste dal regolamento, sono state aggiunte quelle degli archivi e delle raccolte museali;
b) per i beni demaniali stabilisce che l’autorizzazione ministeriale possa essere rilasciata sole se dalla vendita non derivi danno alla loro conservazione, non risulti menomata la loro pubblica fruizione e nel provvedimento autorizzativo devono essere indicate le destinazioni d’uso compatibili con il carattere storico-artistico degli immobili e comunque tali da non recare danno alla loro conservazione;
c) il ministero con propri decreti fissa i criteri e le modalità di predisposizione degli elenchi di beni da sottoporre a verifica e la documentazione da inviare a corredo degli stessi. Per i beni demaniali dello Stato è previsto il concerto con l’Agenzia del demanio.
E ora il tormentone del silenzio assenso. A tutti, proprio tutti, è sfuggito che il regolamento del 2000 – considerato una specie di Magna Charta dell’inalienabilità dei beni culturali – all’articolo 9 recita testualmente che il Soprintendente regionale delibera sulla richiesta di autorizzazione con provvedimento espresso da adottarsi nel termine di centoventi, o addirittura di novanta giorni, dal ricevimento dell’istanza. Dunque il silenzio assenso era già presente nel sistema e, in qualche caso, era operativo dopo soli novanta giorni (articolo 8).
Ma si deve aver paura del silenzio assenso? Mi pare proprio di no. Infatti, l’istituto del silenzio assenso, espressamente, vale solo in via di prima applicazione; a regime, dunque, opereranno le sole disposizioni del Codice. La procedura assoggettata a termine riguarda i soli beni demaniali. Ne restano fuori, perciò, tutti gli altri beni pubblici, mobili e immobili, nonché i beni di soggetti privati senza fine di lucro (come, ad esempio, quelli degli enti ecclesiastici). Per tali beni, quindi, non si applica l’istituto del silenzio. Una consistente parte del patrimonio pubblico ha interesse storico-artistico già accertato da tempo e consacrato in documenti ufficiali depositati presso il ministero, come le schede di catalogazione e, in casi limitati, i decreti di vincolo. Un’altra parte non indifferente dello stesso patrimonio è di valore culturale solo perché risalente a oltre cinquanta anni: si pensi, ad esempio, a tutta l’edilizia economica e popolare degli anni 50. Tale regime di tutela presuntiva può essere eliminato attraverso una rapidissima istruttoria, così da consentire di perseguire, senza il minimo danno per il patrimonio artistico, le esigenze di acquisizione di risorse con la dismissione di tali cespiti. La verifica dell’eventuale interesse culturale impone la predisposizione degli elenchi e delle schede descrittive, secondo criteri e modalità da convenire con il ministero. Tale decreto, che sta per essere sottoscritto, contiene il modello di scheda che è necessario riempire. E’ sufficiente scorrere le voci che compongono la scheda per rendersi conto del grado di approfondimento delle conoscenze richieste per procedere alla valutazione dell’interesse culturale. Sarà quindi necessario che il bene sia accuratamente descritto sotto tutti gli aspetti (topografico, catastale, architettonico, storico, tipologia d’uso, presenza di elementi decorativi di pregio interni o esterni) e che sia trasmessa tutta la documentazione, anche fotografica, necessaria.
Chi pensa quindi che le scrivanie dei soprintendenti verranno invase da elenchi di immobili contenenti poco più che i nomi degli stessi, commette quindi un grossolano errore.
Ecco quindi una prima conclusione: l’alienabilità dei beni culturali pubblici è assistita da maggiori cautele e garanzie di quante non ne avesse nel procedimento previsto dal regolamento n. 283 del 2000.
E veniamo alla questione del paesaggio.
Nel sistema attuale alle commissioni edilizie dei comuni è stato affidato il compito di giudicare la conpatibilità paesaggistica dei singoli progetti presentati, di regola al di fuori di un quadro di riferimento complessivo in grado di dare razionalità alla valutazione. Con il crescere dell’estensione delle aree tutelate, si sono inevitabilmente accentuati il soggettivismo, per non dire l’arbitrarietà delle scelte, dando così anche impulso al ricorso all’abusivismo. Il risultato è davanti agli occhi di tutti. Di fronte a ciò, le Soprintendenze non hanno avuto a disposizione nient’altro che il potere di annullare l’autorizzazione per soli vizi di legittimità; ma ormai tutti dovrebbero aver capito che si tratta di un’arma spuntata, perché si tratta di una valutazione che non può entrare nel merito della compatibilità paesaggistica, interviene solo dopo il rilascio dell’autorizzazione, quando spesso le opere sono già state eseguite o comunque si sono consolidate le aspettative dei proprietari e determina quindi un notevole contenzioso (che vede il ministero spesso soccombente).Uno strumento, in sintesi, destinato a divenire sempre più ininfluente. Occorre perciò tentare di fare un salto di qualità.
L’obiettivo sta nella graduale trasformazione della portata dei vincoli, nel senso di arricchirli sempre più con i cosiddetti criteri di gestione, adatti alle caratteristiche paesaggistiche e alle esigenze di tutela e valorizzazione delle singole zone del territorio.
In questa prospettiva, il Codice Urbani conserva la possibilità per il ministero di imporre i vincoli nel caso in cui le commissioni regionali o gli assessorati competenti non provvedano; prevede l’elaborazione e l’adeguamento dei piani paesaggistici, dei quali per la prima volta viene indicato il contenuto minimo, attraverso la concertazione tra regioni e ministero; afferma più chiaramente la prevalenza dei piani paesaggistici sugli altri strumenti di pianificazione del territorio, a cominciare dai piani regolatori dei comuni.
Fonte: Il Sole – 24 Ore 08/02/04
Autore: Mario Torsello