Il gigante Fastigiadu giace sul lettino di plastica nera, in attesa che il bisturi gli restituisca un po’ del suo aspetto da antico «corteggiato», ovvero latin lover. Accanto a lui il robusto Balente, piuttosto malridotto forse proprio perché troppo «coraggioso », aspetta una risolutiva terapia al laser. E «nonno» Manneddu espone sotto l’aspiratore le ferite della sua corporatura appunto «imponente », soprattutto in confronto a Bainzeddu, il «piccolino» di casa.
Sono piuttosto malridotti, i venti guerrieri, ma d’altronde dopo quasi tre millenni sotto terra c’era da aspettarselo. E poi, in questo laboratorio di restauro che sembra uno strano pronto soccorso per uomini di pietra, un’équipe di 16 specialisti sta facendo del suo meglio per ripulirli, ricomporne le fratture, aggiustare le mutilazioni scegliendo i pezzi giusti tra i 5172 reperti disponibili, compilarne un’accuratissima cartella clinica e infine rimetterli in piedi. E quando ciò avverrà, probabilmente l’anno prossimo, c’è da giurare che assisteremo a una scena davvero grandiosa: degna di uno dei più spettacolari ritrovamenti archeologici degli ultimi anni.
La Calabria infatti ha i suoi Bronzi di Riace, la Cina il celeberrimo «esercito di terracotta», ma anche la Sardegna potrà tra breve mostrare i suoi «Giganti di Monte Prama». Prende ’e zenia, ovvero «gioiello di un popolo»: così giustamente si è voluto intitolare il progetto che finalmente sta conducendo al restauro di queste figure colossali scolpite nella pietra calcarea in blocco unico (basamento compreso) intorno all’800 a.C. Venti, forse 22 guerrieri alti fino a due metri e 60, per un peso intorno agli 800 kg ciascuno; massicci, imponenti e ciò nonostante lavorati a tutto tondo con finezza di particolari che li fanno distinguere l’uno dall’altro: tanto che i restauratori, un po’ per scherzo un po’ per riconoscerli meglio, hanno dato loro un nome sardo, scritto sul nastro adesivo appiccicato alle basse brandine allineate l’una accanto all’altra, come in una corsia di ospedale.
Fastigiadu, Balente, Manneddu… E poi Efisio, come il patrono dell’isola, Proto (il «primo» a essere lavorato, ma anche il santo della vicina Porto Torres), Antine, Segundu, Babore, Prexiadu, Larentu… 14 «pugilatori» – così sono state chial mate le figure che presentano il braccio destro guantato fino al gomito, il sinistro che regge sopra la testa una sorta di scudo ricurvo, capelli raccolti in treccine e un’alta cintura in vita –, 4 arcieri (più snelli, elmo con due corni, alti schinieri a proteggere le gambe, faretra sul dorso e placca quadrata di protezione sul petto), altri 4 guerrieri non meglio identificati; ecco i «tipi» dei giganti, che ripetono peraltro – in formato elefante – i ben noti bronzetti d’epoca nuragica. Compresi gli occhi «a doppio cerchiello » che conferiscono ai volti un’aria fissa, ma ipnotica e iper-moderna.
Le statue sono state trovate per caso tra il 1974 e il 1979 presso Oristano, costa occidentale sarda, sull’altura di Monte Prama fra lo stagno di Cabras e il mare. I colossi erano stati abbattuti e volutamente ridotti in frantumi, sparsi intorno a una serie di tombe datate con sicurezza al VII secolo a.C.; erano accompagnati da modellini di nuraghi altrettanto colossali, alti anche un metro e 80. Lì vicino sorgeva la potente città fenicia di Tharros ed è stata identificata anche la cava da cui vennero probabilmente presi i blocchi d’arenaria per le sculture. Deboli indizi lascerebbero intendere che i guerrieri fossero anche dipinti, di rosso e forse di nero; di certo vennero distrutti dopo la sconfitta del popolo che li aveva costruiti. Ma come fossero disposti quei giganti, che cosa proteggessero quasi in riva al mare, a che cosa servissero nessuno davvero lo sa; sono infatti un unicum assoluto tra le civiltà del Mediterraneo. E forse potrebbero dare un’immagine diversa alle ancora misteriose culture della protostoria sarda.
«Opere di grandi artigiani locali – le definisce Giovanni Lillìu, massima autorità nell’archeologia dell’isola –, scolpite proprio quando in Grecia nasceva la statuaria monumentale… Sono lo specchio di un sistema sardo di cultura eccellente e competitivo».
E allora perché opere tanto importanti approdano al restauro solo adesso, a ben trent’anni dalla scoperta? Perché per tutto questo tempo i 5000 frammenti sono rimasti accatastati in cassette in vari depositi, a parte alcuni pezzi più grossi – dei torsi, delle teste – esposti al Museo archeologico di Cagliari? C’è stata polemica sulla faccenda, fors’anche dovuta alle rivalità tra Soprintendenze provinciali, solo da pochi mesi riunite in un unico ente sardo. O forse si aspettavano soltanto i fondi e gli spazi giusti per un intervento tanto «colossale», spazi finalmente rinvenuti nel bel Centro di Restauro e conservazione attivo da qualche anno nel mai utilizzato ospedale psichiatrico di Sassari.
Per farsi perdonare del ritardo, la Soprintendenza sarda ha aperto il cantiere al pubblico che così, due giorni la settimana, si possono seguire «in diretta» i delicati lavori di ripulitura dei giganti; finora ne hanno approfittato molti turisti, anche stranieri, e scuole dell’isola. Il sito Internet www.monteprama.it, inoltre, aggiorna continuamente sul numero di «attacchi» trovati, ovvero sulle corrispondenze scoperte tra un frammento e l’altro: perché qui è come rimettere insieme un enorme puzzle tridimensionale… Adesso le «tessere » andate a posto sono quasi 700, già molte per i ricercatori – all’inizio assai più pessimisti; è stato lanciato persino un appello agli abitanti del luogo dello scavo, che magari avessero trattenuto in casa qualche pezzo ritrovato per caso. Fastigiadu e Balente e tutti gli altri aspettano, pazienti, di rialzarsi.
Fonte: Avvenire 03/10/2008
Autore: Roberto Beretta
Cronologia: Protostoria