La Sardegna, con le sue particolarità ambientali e storiche, si inserisce a pieno titolo nel dibattito sul rapporto fra i cosiddetti beni culturali “locali” e quelli di valenza “nazionale”, legato anche alla valorizzazione delle culture locali come nodo essenziale di radicamento e riappropriazione di identità nei processi di globalizzazione,
Il passo da compiere, ancor prima della comunicazione, è quello della conoscenza, derivante dalle attività di censimento e catalogazione degli stessi beni. In questa sede ci limitiamo a ricordare che esiste un sistema di catalogazione dei beni culturali messo a punto dall’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD) del Ministero per i Beni e le Attività Culturali imperniato su due concetti fondamentali:
1. l’oggetto culturale sta al centro del sistema di catalogazione e la semplicità o complessità non è interna alla sua natura, ma valutabile in base allo stato nel quale si presenta e alla quantità di informazioni disponibili
2. Esistono diversi livelli di approfondimento delle informazioni che corrispondono alle fasi di inventariazione, precatalazione e catalogazione.
Il sistema, a prima vista complesso e pesante, si rivela nella pratica dotato di una profonda e sostanziale duttilità, e il recente sviluppo dei livelli inventariali contribuisce a renderlo più snello. Ma gli spunti di riflessione non sono dettati tanto dal sistema, quanto dall’impostazione concettuale che esso, nella forma della singola scheda, recepisce.
In Sardegna, nel corso degli ultimi 20 anni, si sono susseguiti vari programmi di catalogazione, spesso accompagnati dal dibattito sulla necessità di un Centro di Catalogazione Regionale che ancora oggi stenta a decollare. In tali occasioni è sempre emersa la specificità del territorio della Sardegna, soprattutto riguardo ai beni immobili archeologici e architettonici censiti in aree extraurbane e al legame inscindibile fra monumento, sistema insediativo e contesto ambientale. Il concetto dell’inscindibilità fra monumento e contesto e della reticolarità del patrimonio culturale italiano è presente nella letteratura recente: fra tutti, Salvatore Settis (Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale, Einaudi, Torino 2002) dove si sottolinea (p. 10) come la caratteristica e la forza del “modello Italia” sia “….tutta nella presenza diffusa, capillare, viva di un patrimonio solo in piccola parte conservato nei musei, e che incontriamo invece, anche senza volerlo e anche senza pensarci, nelle strade delle nostre città, nei palazzi in cui hanno sede le abitazioni, scuole e uffici, nelle chiese aperte al culto…” E, aggiungeremmo noi, nel territorio extraurbano.
Tra i pionieristici esperimenti di catalogazione informatizzata avviati in Sardegna negli anni ’80, vi fu l’elaborazione di una scheda “Sito” caratterizzata da presenze e manufatti antropici, fossero essi archeologici (monumenti o reperti), architettonici o storico artistici (Progetto SITAG, Sistema Informativo Territoriale Archeologico Gallurese).
Il passaggio dalla definizione catalografica di “sito” tout court di fine anni ’80 a quella attuale dell’ICCD di “sito archeologico” non sembra cogliere e raccogliere appieno la complessità e la reticolarità delle presenze culturali in genere e, per quanto ci riguarda, della Sardegna. La prima versione sperimentata negli anni dalla RAS in collaborazione con l’IBC – Istituto Beni Culturali Emilia Romagna, proponeva unicamente l’uso di una scheda “Sito archeologico” che nella sostanza identificava quest’ultimo con il monumento archeologico, eliminando la possibilità di inserire nel contesto presenze monumentali diverse. La versione attuale della scheda “Sito archeologico” dell’ICCD, pur apportando notevoli migliorie nella possibilità di contenere in tale unità territoriale più monumenti, mantiene questo limite, recuperando le relazioni con monumenti di tipologia differente solo nell’ambito dei riferimenti orizzontali fra schede di diversa tipologia. Manca la possibilità di rilevare elementi di contesto comuni ad unità monumentali di diversa tipologia o, per meglio dire, di rilevare un “paesaggio culturale”.
Ad esempio, per catalogare un sito pluristratificato come quello S. Sabina di Silanus (NU) dove, in un’immagine di vivo effetto sono presenti, nello spazio di poche decine di metri, un ben conservato nuraghe a tholos, la caratteristica chiesa a impianto circolare e le relative cumbessias, saremmo costretti ad operazioni farraginose: è evidente che la perdita dell’unità base – sito che è sempre, per sua natura (e in Sardegna questo si può apprezzare appieno senza mediazioni), reticolare e pluristratificata con livelli cronologici e tipologie monumentali differenti e non tutte riconducibili al solo ambito archeologico, crea una frammentarietà forzata nella lettura del territorio con una serie di conseguenze a catena nei diversi livelli di tutela così come nello studio e nell’interpretazione scientifica. Una perdita secca di unitarietà.
Un riscontro di quanto appena esposto si può trovare nella recente Legge Regionale del 20/9/2006, n. 14 – Norme in materia di beni culturali, istituti e luoghi della cultura: dopo la definizione di parco archeologico come “ambito territoriale caratterizzato dalla presenza di importanti testimonianze archeologiche, insieme a valori storici, paesaggistici o ambientali, organizzato e gestito per assicurarne la fruizione e la valorizzazione a fini scientifici e culturali” (art. 10), si prosegue dichiarando che “ …sono equiparati ai parchi archeologici i complessi monumentali e, in particolare, santuari, chiese campestri, luoghi di culto, torri e sistemi di difesa costiera, edificati anche in epoche diverse e che, con il tempo, hanno acquisito per la Sardegna, come insieme, una autonoma rilevanza artistica, storica ed etnoantropologica”. E’ evidente l’importanza a buon diritto assegnata dalla legge non solo al monumento in sé, ma anche al suo contesto ambientale. Si evidenziano però alcune tensioni logiche: ad esempio, l’equiparazione a parco archeologico di monumenti e contesti di altra natura può apparire forzata. Il parco archeologico, in ogni caso, anche se orientato verso una dimensione aperta, non può corrispondere all’unità sito, ovvero si definisce attraverso la prevalenza di monumenti archeologici forti. Una conseguenza di ciò potrebbe essere lo scollamento fra la definizione di parchi archeologici come unità territoriali e il sistema di catalogazione regionale attraverso unità territoriali di tipo diverso.
In conclusione, siamo in presenza di un momento cruciale nel quale vengono informati i criteri di base di una attività di catalogazione regionale su standard nazionali, e dove le differenze di approccio non appaiono ininfluenti e senza conseguenze. La perdita di una visione unitaria del sito – e dunque del paesaggio culturale – non solo rischia di inficiare la possibilità di leggere il paesaggio culturale sardo nella sua piena configurazione attuale passando per le modalità di formazione dello stesso, ma anche di dirigersi verso una frammentazione tipologica e quindi concettuale; una conseguenza può essere, ad esempio, una maggiore difficoltà nel recepire, sul piano della conoscenza e su quello della tutela, la normativa europea sui paesaggi culturali, che troverebbe invece in Sardegna, a nostro avviso, una piena consonanza, con interessanti riflessioni in relazione agli strumenti del Piano Paesaggistico Regionale e alla Conservatoria delle coste di recente costituzione.
Autore: Giuseppina Manca di Mores
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