La riapertura del Museo Nazionale Jatta di Ruvo di Puglia (Ba), con un ritorno alla purezza della sua forma museografica originaria, è un forte segno di tutela da parte ministeriale per una storia fra le più significative nel panorama artistico ottocentesco preunitario. I reperti eccezionali che lo compongono, prevalentemente vasi apuli e attici, con decorazione a figure rosse, datati tra il V e il III secolo a.C., sono parte di quell’«oro d’argilla» che nella prima metà del XIX secolo fece della piccola cittadina pugliese, da provincia periferica (seconda solo a Nola e poi a Napoli), il centro attrattore del più fervido collezionismo di antichità regnicolo ed europeo.
I celebri vasi ritrovati per caso da un artigiano del luogo e poi acquistati da Carolina Bonaparte Murat nel 1814, oggi a Monaco di Baviera, modificarono completamente la percezione che gli abitanti di Ruvo, di ogni condizione sociale, ebbero della loro storia.
«La specolazione de’ scavamenti cominciò allora a porsi in moda; ma nell’anno 1822 giunse al furore e fu portata ad un punto da non potersi oltrepassare», racconterà Giovanni Jatta nel 1844, fondatore della collezione insieme al fratello Giulio.
Nati a Ruvo nell’ultimo quarto del XVIII secolo, di famiglia modesta, si trasferiscono prima a Nola, poi a Napoli per completare gli studi, ospiti di Domenico Cotugno, prozio materno e celebre archiatra di re Ferdinando IV. Pur vivendo in uno degli ambienti più filomonarchici della capitale, l’eco della rivoluzione francese e la scossa delle repubbliche napoleoniche in Italia investono la vita dei due fratelli come della migliore gioventù napoletana. In seguito alla violenta repressione seguita alla caduta della Repubblica partenopea del 1799, finiscono entrambi nella lista dei traditori e sono costretti all’esilio. Rientrati a Napoli, durante il decennio francese partecipano attivamente al nuovo corso del regno: Giovanni come magistrato e giurista, Giulio come capitano d’armi.
Dopo gli ultimi eventi del 1820-21, entrambi sono sollevati da ogni incarico pubblico ma Giulio perderà anche la libertà, costretto a rientrare a Ruvo agli arresti domiciliari dove resterà fino alla sua morte, nel 1836. Da questo momento inizieranno a collezionare antichità fra Napoli e Ruvo, vivendo da protagonisti una delle pagine più incredibili della storia del collezionismo di antichità fra i due centri. Intrighi, corruzione, scavi clandestini e immense ricchezze dissotterrate a ritmo incessante, frammenti di arte ceramica ineguagliabile ambiti da collezionisti, ambasciatori e mercanti stranieri, persino dai ministri del re.
In questo panorama dai confini complessi, mentre le più grandi potenze straniere cercano di acquistare a Ruvo vasi, bronzi, terrecotte e ori per formare il nucleo di antichità dei loro musei nazionali, il Louvre (Musée Charles X) in testa, gli Jatta riescono in un’operazione che ha dell’incredibile: avviano scavi nei loro terreni, controllano il mercato locale, cercano di frenare il più possibile la vendita e l’esportazione di capolavori ruvestini all’estero, tutelano le antichità patrie in evidente contrasto con il Governo borbonico e gli interessi del Real Museo, creando una collezione di grandissima importanza storico artistica. Per accoglierla costruiscono a Ruvo un imponente palazzo in stile neoclassico, su progetto di Luigi Castellucci, luogo di abitazione e insieme centro culturale dotato di una galleria al piano terra con quattro sale espositive, una grande Biblioteca e un Archivio annessi.
Alla morte di Giulio sarà la moglie, Giulia Viesti, a definire insieme al cognato Giovanni ogni dettaglio allestitivo del museo: forme e arredi ancora oggi utilizzati. Giovanni Jatta junior, figlio di Giulio Jatta e di Giulia Viesti, termina e allestisce di fatto il museo tra il 1848 e il 1860, pubblicando nel 1869 il catalogo della collezione di vasi «italo-greci», poi acquistata dallo Stato italiano nel 1991 e inaugurata come Museo Nazionale nel 1993.
I lavori di restauro, appena terminati, riportano i luoghi storici indietro nel tempo, liberando gli ambienti «dagli scempi del passato, come il precedente impianto elettrico», dichiara Barbara Jatta, direttrice dei Musei Vaticani e discendente della famiglia ruvese.
Si apprezza così il restauro delle volte, la luce quasi naturale che finalmente rende visibili i reperti nelle vetrine, il ripristino dei divanetti in velluto rosso realizzati a Napoli, come tutti gli arredi del museo.
«È un lavoro meraviglioso, prosegue, un recupero che è sintomo di alta professionalità e grande sensibilità, c’è preservazione della nostra memoria».
Novità anche per l’aumento dello spazio espositivo dedicato alle mostre temporanee attraverso la struttura sottostante il museo, il Grottone, in un accordo di gestione compartecipata con la famiglia Jatta dal 2022. Apprezzabile anche il trasferimento della collezione dei bronzi e della sezione epigrafica in un’altra area di pertinenza del museo, di prossima inaugurazione.
Presto ci saranno anche un caffè letterario e una messa a norma della zona dedicata all’Archivio storico e alla Biblioteca, ancora privati come il Palazzo ruvese.
Fiore all’occhiello del Museo Jatta è lo straordinario cratere attico a volute e a figure rosse del Pittore di Talos (430-420 a.C.), che deriva il suo nome dal gigante di bronzo a guardia dell’isola di Creta, donato da Zeus a Minosse. Sul lato A del vaso si può osservare Talos in tutto il suo monumentale biancore, sorretto e sconfitto dai Dioscuri grazie all’incantesimo di Medea e colpito nel suo unico punto vulnerabile, il malleolo. Fanno parte della raccolta Jatta vasi apuli, attici e lucani a figure rosse, tra cui svariati «rhytà» (vasi a protome di animale), esemplari greci di importazione, figurine in terracotta provenienti da Daunia, Peucezia e Messapia e notevoli bronzi.
Autore: Daniela Ventrelli
Fonte: www.ilgiornaledellarte.com 14 mar 2024