Una storia antichissima che ha ancora molto da dire sull’evoluzione umana, sulla nostra natura bio-culturale e sul nostro posto nella Natura. L’uomo di Altamura e quello di Ceprano sono fossili ritrovati ormai decine di anni fa, ma il cui studio è tutt’altro che completo. Anzi, grazie alle nuove tecnologie, le scoperte che si possono fare sono ancora tante.
Ce lo spiega Giorgio Manzi, paleoantropologo e accademico dei Lincei, professore all’Università La Sapienza di Roma, dove dirige il Museo di Antropologia «G. Sergi», che, l’altro ieri, ha incontrato gli studenti dell’Istituto di Istruzione Superiore G. Boccardi di Termoli, in Molise, nell’ambito dell’iniziativa UnistemTour, il progetto dedicato ai ragazzi delle scuole superiori con l’obiettivo di orientarli nella scelta di percorsi formativi e professionali nei campi della scienza e della tecnologia.
«Continuiamo a fare ricerche sull’uomo di Ceprano: un fossile fondamentale, fra ì più antichi in Italia, scoperto nel Lazio nel 1994. Risale a 400 mila anni fa e rappresenta l’umanità che fu ancestrale ai Neanderthal in Europa e alle origini di Homo sapiens in Africa. La sua importanza è davvero notevole. Ci sta consentendo di studiare un passaggio cruciale nel percorso di encefalizzazione, cioè dell’espansione del cervello, nel corso dell’evoluzione, proprio nella fase in cui l’aumento cranico ha avuto un’impennata nel suo andamento esponenziale».
Il nuovo studio è stato possibile grazie a una micro-tomografia computerizzata ad altissima risoluzione, che ha digitalizzato e riassemblato gli oltre 50 frammenti che compongono il cranio.
Altro reperto fondamentale, scoperto nel 1993, ma non ancora studiato abbastanza a fondo, è l’uomo di Altamura. Probabilmente era un maschio, alto 160-165 cm, caduto in una trappola naturale, forse durante una battuta di caccia, in uno dei pozzi carsici presenti nell’Alta Murgia. Qualcosa gli impedì di uscire dalla grotta, dove si lasciò morire e dove è stato ritrovato il suo scheletro.
«Straordinario – spiega Manzi -. Si tratta dei resti dello scheletro meglio conservato dell’intera documentazione fossile precedente a Homo sapiens. È lo scheletro, praticamente intero, di un Neanderthal arcaico. Il suo stato di conservazione e la sua completezza sono incredibili. Può darci informazioni dettagliatissime su quell’uomo, sulla specie a cui apparteneva e sull’evoluzione in genere».
Potenzialmente però, perché quello scheletro è ancora nella grotta dove è stato ritrovato oltre un quarto di secolo fa. Le difficoltà sono molte e alle difficoltà tecniche legate alla complessità della rimozione (le ossa sono inglobate nella calcite carsica) si affiancano quelle procedurali e, diciamo così, politiche. Fortunatamente, però, siamo vicini a una svolta: l’amministrazione del Comune di Altamura ha recepito l’importanza non solo scientifica del loro straordinario reperto, ma anche quella culturale, turistica e, dunque, economica. Altri, invece, vorrebbero tenerlo lì nella grotta, come fosse un «monumento naturale», poco conosciuto e irraggiungibile, prigioniero del calcare e di un percorso speleologico complicato.
Per il momento i ricercatori hanno lavorato nella grotta, raccogliendo tutti i dati possibili. E anche in questo caso le tecnologie hanno permesso di fare molto.
«Tra le risorse della paleoantropologia c’è l’analisi del Dna antico. Il dato genetico ha potuto consolidare con dati quantitativi teorie che già erano state formulate. La paleogenetica è un campo che ci può dare molto, se opportunamente combinata con altri tipi di dati, diciamo così più tradizionali.
Soprattutto va ribadito che siamo figli di un unico progenitore: siamo tutti Homo sapiens e veniamo da una popolazione africana che si è diffusa su tutto il resto del Pianeta, ma che si è anche ibridata con altre specie umane, con i Neanderthal in primo luogo. Ormai sappiamo che ognuno di noi ha ereditato brandelli di Dna dei Neanderthal: questo non deve però portarci a dire che siamo figli di tante madri diverse, ancorché ci siano state queste ibridazioni. Due specie diverse possono ibridarsi: infatti, anche se a scuola abbiamo imparato una nozione rigida di specie, la natura ci mostra tante eccezioni», conclude Manzi, che accenna anche a una seconda linea di studio, ripresa recentemente dal suo laboratorio.
«Ci stiamo occupando della transizione tra l’Età Romana e l’Alto Medioevo. Caduto l’Impero Romano, cambia tutto nello stato di salute e nei modi di vivere della popolazione e tutto questo le ossa lo raccontano. Ci stiamo concentrando su alcuni campioni di epoca longobarda, dominatori della Penisola per due secoli, finché non vennero spodestati da Carlo Magno».
Autore: Emanuela Grigliè
Fonte: www.lastampa.it, 5 feb 2020