L’unica reliquia esistente di un personaggio celebre dell’antica Roma giace in una vecchia teca dimenticato da tutti. Grazie all’iniziativa del nostro giornale, ora attende un progetto di ricerca ad esso dedicato.
E’ l’unica reliquia esistente di un personaggio celebre dell’antica Roma, un intellettuale che ci ha tramandato ben 37 libri completi di storia naturale e che, al tempo stesso, fu un eroico ammiraglio. Il 25 agosto del 79 d.C., sacrificò la propria vita per salvare i pompeiani dall’eruzione del Vesuvio, divenendo così l’antenato più illustre e antico della protezione civile di tutto il mondo.
Il suo scheletro, carico di ori e di insegne militari, fu trovato ai primi del ‘900, ma solo da pochi anni gli studi archeologici hanno portato una nuova quantità di indizi sulla sua autenticità. Il nostro giornale ha appena proposto agli antropologi che hanno studiato l’Uomo del Similaun di compiere l’esame definitivo sul reperto, ottenendo la loro piena disponibilità.
Come spesso accade per i tesori della nostra cultura, questo reperto non è stato, fino ad oggi, molto valorizzato. Attualmente giace – dimenticato da tutti – in un angolo del Museo Storico dell’Arte sanitaria di Roma, una galleria che, per quanto illustre e ricca di preziosi reperti, è messa in ombra dai grandi musei dedicati alle arti maggiori. Qui, in una vecchia teca, un cartoncino sbiadito, scritto a mano, identifica un teschio: “Cranio di Plinio il Vecchio”.
Nel 2014, lo Stato Maggiore della Difesa ha pubblicato il volume “79 d.C rotta su Pompei. La prima operazione di protezione civile”, dell’ingegner Flavio Russo, in cui si ricostruisce la vicenda del ritrovamento e dell’attribuzione del cranio portando soprattutto all’attenzione del pubblico quello che fu l’estremo sacrificio di Plinio. Il libro sembra un romanzo, ma si limita a descrivere i dettagli di una vicenda che potrebbe senz’altro ispirare un film d’avventura.
UN PERSONAGGIO FUORI DAL COMUNE
Gaio Plinio Secondo nacque a Como nel 23 (o 24) d.C., da una famiglia equestre. Educato a Roma, intraprese la carriera militare come ufficiale di cavalleria; sotto Vespasiano, di cui fu amico, ebbe l’incarico di procuratore imperiale in varie province. Nel 79 d.C., anno dell’eruzione del Vesuvio e della tragedia di Pompei ed Ercolano, Plinio comandava, come prefetto, la flotta militare a Miseno.
Fu suo nipote, Plinio il Giovane, a raccontarci la vita e la personalità di quest’uomo straordinario: integerrimo ufficiale, appassionato e infaticabile studioso, scrisse varie opere storiche, ma l’unica superstite è l’amplissima Naturalis Historia, in 37 libri: l’opera abbraccia tutti gli aspetti del regno della natura (cosmologia, astronomia, geografia, etnografia, antropologia, zoologia, botanica, farmacologia e medicina, mineralogia, arti figurative) E’ una fonte preziosissima per gli studi sulla cultura romana.
LA CATASTROFE DI POMPEI
Il 24 Agosto del 79 d.C., dopo una quiescenza protrattasi per oltre cinquecento anni, il Vesuvio esplose, ricoprendo di ceneri e lapilli le piccole città insediate sulle sue fertili pendici. Mentre Plinio osservava l’eruzione da Miseno una disperata richiesta di aiuto gli giunse – tramite segnalazione, o colombo viaggiatore – da Rectina, una matrona di Pompei con la quale sembra che Plinio avesse una relazione, o comunque un legame affettivo. Grazie a questo messaggio Plinio poté rendersi conto dell’emergenza che riguardava la popolazione e ordinò immediatamente un massiccio intervento di soccorso impiegando tutte le quadriremi disponibili. Lo stesso ammiraglio si imbarcò su una di esse per coordinare personalmente le operazioni di soccorso e ordinò ai comandanti di dirigersi a tutta forza verso la costa di Ercolano e Pompei. Queste navi erano dotate di ponte piatto e avrebbero potuto caricare circa 200 persone ognuna; essendo dotate di propulsione a remi, sarebbero state le uniche imbarcazioni e poter raggiungere le spiagge dove si erano raccolti più di 2000 cittadini in fuga. Il vento forte che spingeva dal mare verso terra e il mare burrascoso avrebbe infatti impedito a qualsiasi imbarcazione a vela di portare in salvo gli abitanti.
PLINIO SOCCORRE I POMPEIANI
Nel frattempo, centinaia di persone, recando con sé gli ultimi averi, si erano dirette verso la spiaggia, scrutando febbrilmente l’orizzonte nella speranza di veder comparire le navi della flotta.
L’ammiraglio era sulla nave chiamata Fortuna e quando, prossimi alla meta, i lapilli cominciarono a grandinare sul ponte, al pilota, che gli chiedeva se non fosse il caso di cambiare rotta, Plinio rispose ironico: “La Fortuna aiuta i coraggiosi!”.
Le quadriremi dovettero ormeggiarsi ad alcune centinaia di metri dalla costa, a distanza di sicurezza, distribuendosi a ventaglio da Ercolano a Stabia, lasciando alle loro robuste e agili lance il compito di recuperare i fuggiaschi. Il trasbordo si attuò freneticamente, ma alcune ore dopo un’ondata di gas velenoso, scaturita dal vulcano, raggiunse la spiaggia di Stabia, uccidendo gli ultimi che vi erano rimasti in attesa del loro turno d’imbarco. Fra questi vi era anche Plinio che stava gestendo di persona le operazioni di salvataggio.
Da quel momento, infatti, nessuno rivide più l’ammiraglio. Sulla sua sorte, non solo disponiamo delle lettere che il nipote Plinio il Giovane inviò a Tacito, ma anche dei ritrovamenti archeologici risalenti agli inizi del secolo scorso, da cui proviene il cranio, che hanno fornito preziose informazioni sulle ultime ore del grande romano.
SCHELETRI E ORI
Fu l’ingegnere napoletano Gennaro Matrone che, ai primi del ‘900, condusse scavi alla foce del Sarno dai quali vennero alla luce 73 scheletri. Il manto lavico che avvolgeva i corpi non rese difficile identificarli come un gruppo di pompeiani che, in attesa dei soccorsi, erano stati uccisi da un’ondata di venefici vapori fuoriusciti dal vulcano. Si sarebbe trattato, probabilmente, di un miscuglio di anidride carbonica e acido solfidrico. Alcuni di questi corpi portavano con sé piccole borse di monete, ma nulla di più.
Tra gli scheletri rinvenuti ve n’era, invece, uno isolato dagli altri, che indossava numerosi e ricchi gioielli d’oro. Bracciali a forma di serpente, armille, una collana d’oro composta da ben 75 maglie, anelli, tra cui uno con due teste di leone affrontate e un gladio dall’elsa d’avorio preziosamente ornata da alcune conchiglie d’oro.
Matrone, fin da subito, ventilò alle autorità che potesse trattarsi dello scheletro di Plinio, ma non fu preso sul serio e gli fu concessa libertà di disporre a suo piacimento dei gioielli rinvenuti. Purtroppo, data la mancanza di leggi di tutela, i reperti di maggior valore furono venduti da Matrone forse ai Rotschild, o ad altri ricchi collezionisti stranieri.
UN REPERTO DIMENTICATO A TORTO
L’attribuzione, propagandata in un opuscolo dallo stesso Matrone, venne poco tempo dopo confutata dall’archeologo Giuseppe Cosenza il quale considerava poco credibile che un ammiraglio romano potesse mostrarsi addobbato come “una ballerina da avanspettacolo”.
Tuttavia, in tempi più recenti, gli studi archeologici hanno identificato nel tipo di ornamenti aurei indossati dallo scheletro, e soprattutto nel suo gladio tempestato di conchiglie dorate, proprio gli emblemi di onorificenze e alte cariche militari – in special modo marittime – in uso fin dall’epoca di Augusto. L’anello con le teste di leone era, peraltro, uno “chevalier” tipico della classe equestre, il ceto dal quale proveniva, appunto, Plinio.
Ciò che appare molto verosimile è che Plinio, prima di intervenire in soccorso della popolazione, avesse indossato le insegne della sua autorità per meglio gestire l’operazione, per infondere fiducia nei cittadini e farsi meglio obbedire dai suoi uomini, forse anche essere più riconoscibile nella cinerea oscurità che avvolgeva le spiagge durante l’eruzione.
In ogni caso, svanito ogni entusiasmo per il ritrovamento a causa delle critiche del Cosenza, Matrone donò il teschio al Generale Mariano Borgatti che lo fece accogliere nel Museo dell’Arte Sanitaria di Roma.
LA PROVA DEFINITIVA
“Per esclusione potremmo già sostenere – spiega lo studioso Flavio Russo – che il reperto appartenga al grande storico romano. Del resto, il cranio appartiene a un uomo di circa 50 anni e Plinio, quando morì, ne aveva appunto 56. Era cavaliere ed ammiraglio, e addosso allo scheletro sono stati trovati gioielli relativi a entrambi gli status. Il corpo è stato trovato sulla spiaggia di Stabia, e il soggetto è morto sicuramente durante le operazioni di salvataggio dei pompeiani via mare. Serve altro?
Tuttavia, la tecnologia offrirebbe, oggi, la possibilità di un esame che porterebbe una prova definitiva, se ce ne fosse bisogno. Nei primi anni di vita di una persona, infatti, gli isotopi radioattivi contenuti nell’acqua da bere si depositano nei denti. Dato che Plinio era nato a Como, basterebbe verificare che gli isotopi contenuti nei denti del cranio corrispondano a quelli delle acque che scorrono nel comasco.
In ogni caso, un reperto simile, già da ora, con gli elementi di cui disponiamo, sarebbe degno di una valorizzazione di gran lunga maggiore di quella attuale. Una semplice scatola di vetro per l’unica reliquia del mondo romano non le pare un po’ poco?“.
L’INIZIATIVA DE LA STAMPA
Il nostro giornale, tramite lo scrivente, ha portato a conoscenza del reperto la dottoressa Isolina Marota, antropologa dell’Università di Camerino, che per anni ha seguito, insieme al compianto prof. Franco Rollo, gli studi sull’uomo del Similaun, la mummia di 5000 anni fa ritrovata in Val Senales.
“L’idea dell’esame sugli isotopi stabili e degli elementi in tracce ventilata dall’ing. Russo – spiega l’antropologa – è senz’altro vincente. Grazie a questo procedimento è stato infatti possibile, pochi anni fa, identificare perfino da quale valle alpina provenisse l’uomo del Similaun (nato 3000 anni prima di Plinio n.d.r.) con un’approssimazione geografica molto precisa. Un altro esame utile potrebbe essere il confronto della morfologia di ciò che resta del cranio (in particolare la forma della mandibola) con i vari busti e rilievi di Plinio pervenuti fino ai giorni nostri.
Considerata l’importanza del reperto, da parte della nostra Università c’è la massima disponibilità a far partire un progetto di ricerca ad esso dedicato, magari in collaborazione con studiosi e archeologi specializzati e con i responsabili istituzionali del sito di Pompei”.
Tali esami per l’identificazione definitiva dovrebbero costare poche migliaia di euro (circa 10.000), ma ci si dovrà scontrare con la cronica mancanza di fondi dell’università pubblica. Chissà se il Mibact, la Protezione Civile, o qualche altro ente pubblico o privato vorranno finanziare la ricerca, fugando gli ultimi dubbi sul reperto?
A questo punto, non c’è che da ripetere, con Plinio: “Fortuna audaces iuvat”.
Autore: Andrea Cionci
Fonte: www.lastampa.it, 25 ago 2017