In età imperiale le ville e i possedimenti aristocratici più in voga, disseminati nel suburbio di Roma, esibivano terme private.
E’ quanto continuano a rilevare le scoperte a ridosso di strade importanti, come quella recente dell’impianto termale di Capo di Bove, lungo l’Appia antica.
L’ultima rivelazione, alla fine di luglio, non è molto distante. Qualche chilometro prima dell’ingresso di Villa dei Quintili (Appia Nuova) sono spuntati a sorpresa sagome di vasche, pezzi di marmo, condotti per l’aria calda.
A portare alla luce ciò che rimane del complesso, sono una trentina di universitari provenienti da diversi atenei statunitensi e canadesi, sotto la guida dell’archeologo Darius Arya, direttore dell’American Institute for Roman (con sede a Boston e a Roma), che finanzia il recupero.
Lo scavo, in un terreno incolto fra quartieri moderni e un tratto dell’acquedotto Marcio, è condotto in collaborazione con il Comune di Roma e per concessione della Soprintendenza archeologica statale.
Avrà la durata di cinque anni e questa prima campagna si è conclusa nella prima metà di agosto. Solo a fine estate, quindi, si potranno trarre conclusioni più precise, anche se Darius Arya, coadiuvato da Dora Cirone, non ha dubbi sull’identificazione: “si tratta di un impianto termale costruito in età adrianea, come indicano i bolli laterizi e poi, tra ristrutturazioni e modifiche, utilizzato fino al VI secolo. Sono state le punte dei crolli, avvenuti dopo secoli di abbandono, a indicarci il sito da indagare, più elevato rispetto alla pianura circostante e probabilmente sistemato su un terrazzamento artificiale”.
Una sorte affine ad altre residenze prestigiose vicino a grandi vie di collegamento, spogliate fino allo scheletro e destinate a perdere nomi e riferimenti. Come i resti qui accanto, denominati “Villa delle vignacce”, che cnservano in minima parte la copertura e svettano solitari. Erano stati studiati nel secolo scorso da Ashby e Lugli e indicati come sale termali: ora che, come si è visto, calidari e frigidari giacevano a una certa distanza sotto tonnellate di terra e pietre, si potrà chiarire la connessione fra le due aree contigue. Ed ecco i primi risultati leggibili: una sala stretta fiancheggiata da due panche rivestite di marmo, che potrebbe essere un apodyterium (spogliatoio); un’altra con una vasca rivestita di tessere di mosaico bianche, che presenta rifacimenti tardi in laterizio; a lato, un piccolo ambiente che si delinea come calidarium: gradini per scendere in una vasca e tubi di terracotta sulle pareti per il passaggio dell’aria calda. Gli altri ambienti, non ancora scavati fino al piano di calpestio, presentano paramenti in opera reticolata e mista, con alcune tracce delle impostazioni di soffitti a volte, mentre una parete rivestita di pomici suggerisce l’idea di un ninfeo. Le informazioni fornite dal complesso contribuiranno a comprendere vicende e sistemi di vita che si svolgevano nel suburbio romano, dopo il Quarto miglio (specialmente nell’ultimo periodo di utilizzazione), all’arrivo delle soldatesche barbariche.
Proprio nelle vicinanze, dove l’incrocio dell’Acquedotto Marcio (riutilizzato da papa Sisto V per la sua Acqua Felice) forma con quello Claudio uno spiazzo a forma di trapezio, si acquartierarono i goti di Vitige nel 537.
Fonte: Il Giornale dell’Arte 01/09/2006
Autore: Marisa Ranieri Panetta
Cronologia: Arch. Romana