I resti umani e animali del sito neolitico di Sammardenchia, in provincia di Udine, degradati dall’acqua e dal tempo si sono combinati con la ceramica di uso domestico. Ne è venuto fuori un prodotto ad altissima resistenza. A scoprire il meccanismo alcuni ricercatori del Consiglio nazionale delle ricerche dell’Istituto di scienza e tecnologia dei materiali ceramici (Istec) di Faenza dopo aver attentamente analizzato i reperti in terracotta.
Il sito di Sammardenchia, nel comune di Pozzuolo del Friuli, è tra le aree archeologiche più antiche in Italia, risale al 6.000 a.C., e tra le più vaste, con una continuità d’uso di circa un millennio. Tale caratteristica lasciava presumere la presenza di un notevole quantitativo di resti umani e animali domestici. Ma via via che gli scavi procedevano, allo sguardo degli studiosi balzavano due stranezze: l’estrema povertà di resti di ossa, cosa impensabile per un sito così intensamente e lungamente vissuto, e la anomala concentrazione di fosforo nelle ceramiche sepolte.
«Normalmente le ossa, costituite da fosfato di calcio vengono degradate dall’acqua che dissolve questi elementi disperdendoli nel terreno» spiega Bruno Fabbri dell’Istec-Cnr di Faenza. «Il fosforo, inoltre, è un elemento praticamente assente nella composizione della ceramica, limitandosi a tenori dell’ordine dello 0,2% di P2O5. Ma nelle ceramiche di Sammardenchia abbiamo riscontrato una quantità talmente elevata di fosforo, fino al 10% di P2O5, da lasciarci perplessi. A questa anomalia faceva riscontro la scarsa presenza di resti di ossa, cosa insolita per un luogo così lungamente frequentato».
Dalle analisi è apparso chiaro che le ossa sono state lentamente, ma inesorabilmente degradate fino alla loro pressochè totale scomparsa e che il fosforo così messo in circolazione si è poi depositato nei micropori dei frammenti ceramici circostanti. «Tutte le ceramiche, infatti, sono caratterizzate da una fitta rete di piccolissimi pori, di dimensioni dell’ordine di un millesimo di millimetro, il cui riempimento ha dato origine a una struttura più compatta, dotata di maggiore resistenza meccanica» aggiunge Fabbri.
Questo fenomeno chimico ha reso la ceramica più resistente ai danni delle ’poverè ossa. Inoltre, è stato riscontrato che le maestranze sapevano modulare gli impasti a seconda della destinazione del manufatto, introducendo nell’argilla grossi cristalli di calcite, dell’ordine di un millimetro, per rendere il vasellame più resistente agli sbalzi termici. La calcite si è poi disciolta ad opera del tempo e dell’acqua, al pari delle ossa, lasciando un impasto con macroscopici buchi, lo stesso che i produttori di oggi ottengono volutamente nei laterizi per migliorare le loro caratteristiche di isolamento termico e acustico.
«Questi reperti -conclude il Cnr- testimoniano che la creatività della natura non è certo inferiore a quella dell’uomo, che proprio dalla natura potrebbe spesso trarre ispirazione».
Fonte: La Stampa web 01/07/2008
Cronologia: Preistoria