Quelle orme impresse nel terreno vulcanico le chiamavano “Ciampate del diavolo”. E invece, ha dimostrato adesso uno studioso italiano, sono impronte umane. Le più antiche del globo.
Alzi la mano chi da bambino non ha mai sognato di scoprire, sul sentiero meno frequentato dei giardini pubblici o su una spiaggia al mattino, le tracce di un mostro o di un animale raro o di qualche personaggio misterioso. E’ vero, non le abbiamo mai trovate. Ma qualcuno lo ha fatto per tutti noi. Il realizzatore di sogni si chiama Paolo Mietto. E’ un signore vicentino di 56 anni, che di mestiere insegna Stratigrafia all’Università di Padova. E’ uno dei più importanti ricercatori del mondo di paleoicnologia. Cioè della scienza che studia le orme antiche (chi ha fatto il liceo classico riconoscerà la radice greca in icnos, impronte).
Mietto va soprattutto in montagna a cercare le orme, perché, spiega, “le Dolomiti da questo punto di vista sono uniche”. Lo fa d’estate, dopo un semestre passato a Padova a insegnare. Dorme nei rifugi, o in tenda. Qualche volta la moglie Ilia, insegnante, va con lui. Le due figlie, Valentina a Anna, più raramente. Paolo Mietto sorride quando parla della sua caccia: “Dicono che sono fortunato con le impronte …”
Qualche settimana fa il suo nome ha fatto il giro del mondo con un sacco di tivù (ma, incredibilmente, non quelle italiane) che lo intervistavano per una straordinaria scoperta: le impronte fossili del genere homo più antiche mai viste finora. Insomma, le pedate dei nostri progenitori di 350 mila anni fa. Il bello è che non solo lo scopritore è italiano, ma anche il luogo della scoperta, un paese con un nome da fiaba, Roccamonfina, che sorge ai piedi di un vulcano spento nel casertano.
Una scoperta che ha fatto crollare una leggenda. Infatti, che quelle impronte fossero lì, sul crinale antico del vulcano, lo sapevano tutti, persino l’azienda del turismo, che ci aveva messo il suo bel cartello giallo con sopra scritto: “Ciampate del diavolo”. Cioè le pedate del diavolo, perché, si è pensato per secoli da queste parti, solo un essere soprannaturale poteva camminare sul fuoco di un vulcano e lasciarci le impronte.
Chi le aveva fatte davvero? Nessuno se lo è chiesto. Fino a quando un tecnico laureato dell’Università di Cassino, Adolfo Penarello, appassionato di paleontologia, le ha viste come qualcosa di diverso. E ha spedito una e-mail al professor Mietto. “Io ricevo quattro o cinque segnalazioni all’anno e vado a vedere quelle che mi sembrano più interessanti. Sono andato a vedere proprio queste. Non ho avuto dubbi”.
Così è stata ricostruita la storia delle impronte di Roccamonfina. Spiega Mietto: “Trecentocinquantamila anno fa un gruppo di tre individui, tre esseri umani, è sceso lungo il fianco della montagna. Il terreno era una fanghiglia calda. Dove il pendio è più ripido sono scivolATI E SI SONO AIUTATI CON LE MANI. Nella Fanghiglia sono rimaste le impronte dei piedi, e di qualche dito. E quella della mano che ha aiutato a non scivolare”. Un vento seccò, probabilmente, ha asciugato il terreno e reso le orme eterne.
L’articolo relativo alla scoperta, con le foto, finisce sulla più prestigiosa rivista scientifica del mondo, la britannica “Nature”. Si capisce che si tratta di orme di Homo heidelbergensis, una specie dai confini ancora incerti, composta da individui alti mediamente un metro e 75 e più, con le ossa larghe quasi il doppio delle nostre. Veri colossi. Ma le impronte di Roccamonfina misurano 10 centimetri per 20. Quindi, si tratta di individui non più alti di un metro e mezzo. Erano ragazzini? O qui in Campania viveva una popolazione più bassa? Almeno un mistero irrisolto è rimasto, su quel vulcano.
Roccamonfina è stato un exploit, ma Paolo Mietto di impronte ne ha identificate tante; “Le più belle, per me, restano quelle del 1985, quando ho trovato le prime orme di dinosauro in Italia. Fino a quel momento i paleontologi pensavano che nel nostro Paese non si sarebbe mai trovata nemmeno una vertebra di dinosauro perché tutto il territorio, all’epoca, sarebbe stato sotto le acque del mare. Dopo la scoperta delle impronte, sono venuti fuori i primi resti e oggi sono decine i fossili di questi animali trovati nelle nostre regioni”. Nell’85 fu un passaparola a fargli fare la grande scoperta. “Un mio studente, Piero Gianolla, aveva saputo da un appassionato di paleontologia, Vittorio Cazzetta, che un masso alla base del monte Palmetto, nelle Dolomiti del Cadore, portava delle strane tracce. In settembre io e Gianolla siamo andati a vedere. Era una mattina fredda, con un gran sole e la montagna satura di colori. Abbiamo camminato un’ora e mezzo dalla Forcella Staulanza e abbiamo trovato il masso. Con una scaletta di legno siamo andati a vedere che cosa c’era sopra”. Subito maestro e allievo capiscono che non si tratta di buche casuali nella roccia, ma di passi organizzati. “Io conoscevo bene la stratigrafia e sapevo che nel Triassico quelle rocce erano in realtà una specie di fondale di una gigantesca laguna appena sommersa da un filo d’acqua. Mi sono convinto che quelle erano tracce di un dinosauro che camminava nell’acqua bassa”.
Qualche giorno dopo, a Lerici, Mietto partecipa al Congresso della Società Geologica Italiana e presenta le diapositive. Fa scalpore, elettrizza la sala. “Ma chi non c’era ha pensato che fosse un errore. Si è convinto solo dopo le ricerche successive”. Ora la cartina delle Alpi meridionali è piena di luoghi dove si sono trovate impronte di dinosauri, anche di altre ere, cole il Giurassico. E dopo le impronte sono arrivati gli scheletri. E poi altre impronte di anfibi, rettili, animali di 300 milioni di anni fa.
Paolo Mietto si sta preparando a un’altra estate di camminate con gli occhi bassi in mezzo alle rocce delle Dolomiti. Inseguito dall’invidia di tutti gli ex bambini che cercavano le tracce del mostro.
Fonte: La Stampa Specchio – 10/05/03
Autore: Romeo Bassoli
Cronologia: Preistoria