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READING UNIVERSITY (GB). Non si parlava ma si cantava quando il mondo era di pietra.

Perché ci piace la musica? Indipendentemente dal fatto che abbiamo o meno talento per il canto o per uno strumento musicale, tutti noi proviamo piacere nell’ascoltare musica o nel ballare. È vero per i giovani e per gli anziani, e anche per le persone di ogni cultura del mondo. Ma nelle culture tradizionali la musica e la danza permeavano le società in modo più profondo di quanto avvenga nell’Occidente contemporaneo e con un più alto livello di partecipazione.
La musicalità è un dato universale della natura umana. Come scrisse una volta il noto psicologo dell’infanzia Trevathan, «siamo nati con un’inclinazione e un gusto musicale». Perché questa realtà?

Come altri aspetti della natura umana, ad esempio il linguaggio e la capacità di empatia, oggi ci interroghiamo sui motivi per cui avrebbero dovuto sopravvivere, nei nostri antenati, questi valori primari e sui modi che ci hanno permesso di interagire in quanto membri di una società. Ma che cos’è – o che cos’era – il punto in questione nella musica?

Io avanzo l’ipotesi che fare musica – cantando o ballando – è stato cruciale per la sopravvivenza dei nostri antenati, giocando un ruolo fondamentale nella costruzione delle identità di gruppo, sviluppando la fiducia tra gli individui e facilitando anche le condizioni per l’accoppiamento.
Questo era particolarmente vero per quegli antenati – come l’Homo ergaster, l’Homo Heidelbergensis e l’Homo Neanderthalensis – che esistevano prima dell’evoluzione del linguaggio. Fare musica era così importante che abbiamo imparato a trarre piacere dal canto e dalla danza così come abbiamo imparato a farlo per il cibo e il sesso. E continuiamo a provare piacere per la musica anche oggi, sebbene il linguaggio abbia assorbito molte di quelle sensazioni originali.
Dunque dobbiamo essere grati ai nostri avi dell’ultima era glaciale (e anche a quelli precedenti) per averci dato il genere di mente e di corpo che trova la musica così compatibile e, in una parola, per averci dato «l’istinto musicale».

La ricerca per trovare la fonte del nostro istinto musicale ci porta non soltanto ai resti di fossili e ai manufatti dei nostri avi, ma anche a guardare al lavoro del moderno cervello umano e alla vita dei nostri parenti più prossimi, i grandi primati.

Studiando i fossili dei nostri antenati, possiamo delineare l’evoluzione del tracciato vocale attraverso piccoli segnali: le sottili differenze nella forma delle ossa, la misurazione dei canali nervosi e delle cicatrici nei muscoli.
Si potrà osservare che già 500 mila anni i tracciati vocali erano ben poco dissimili da quelli che possediamo oggi, eppure non c’è ancora nessuna prova dell’esistenza di un pensiero simbolico e di strumenti complessi, che potrebbero essere indicativi del linguaggio – vale a dire l’uso delle parole e la grammatica.

Sembra dunque che l’evoluzione dei tracciati cerebrali dei nostri antenati interessasse il canto più che il linguaggio e che solo in un ultimo stadio dell’evoluzione le parole abbiano sostituito ritmi e melodie.

Melodia e ritmo, comunque, restano centrali per il nostro uso del linguaggio e questo è tanto più evidente nel modo in cui comunichiamo con i bambini. Naturalmente e inconsciamente adottiamo infatti un genere di linguaggio che gli psicologi chiamano «linguaggio diretto ai bambini». Esageriamo i contorni del discorso, lo intensifichiamo, iperarticoliamo le vocali e le nostre espressioni. Questo aiuta, almeno parzialmente, i bambini nell’acquisizione delle parole, è fondamentale per la comunicazione e per indurre emozioni e può essere simile all’antico tipo di comunicazione usato dai nostri antenati prima che si fosse sviluppata la facoltà del linguaggio.

Ci sono stati enormi passi avanti nella neuroscienza della musica e ora stiamo cominciando a capire quali parti del cervello vengono attivate dalle melodie. Perciò, più che pensare alla musica come a un’entità singola, dobbiamo scomporla in diverse componenti, come il tono, il ritmo e il timbro e considerare che tutte queste hanno avuto una storia e un’evoluzione parzialmente indipendenti.
Il fatto diventa evidente studiando quelle persone che hanno sofferto di danni al cervello oppure hanno ereditato condizioni cognitive che provocano la perdita di determinati aspetti dell’abilità musicale, come il ritmo, lasciando gli altri intatti. Sembra quindi che la capacità di apprezzare il tono sia più profondamente radicata dell’abilità che riguarda la percezione del ritmo e così si potrebbe evidenziare un’origine molto più antica per questa particolare capacità musicale.

Questa risalirebbe ad almeno 30 milioni di anni fa, perché le scimmie, con le quali abbiamo in comune gli antenati, sono molto sensibili alle variazioni di tono. La comunicazione vocale delle scimmie e dei primati, infatti, possiede un alto grado di musicalità: si tratta di una realtà condivisa anche dagli ominidi che vivevano sei milioni di anni fa.
Forse il cambiamento più significativo nella specie umana si è verificato con l’evoluzione che ha condotto al bipedismo circa due milioni di anni fa. Camminare su due gambe ha prodotto non solo profondi cambiamenti nel tratto vocale, ma anche uno dei maggiori (e sottovalutati) aspetti collaterali della musica: la capacità di danzare.

Ricostruire l’evoluzione delle nostre abilità musicali significa mettere in gioco discipline diverse, dall’archeologia alla psicologia, dalla neuroscienza alla linguistica, fino alla musicologia e all’etologia.
Ciascuna offre qualche tessera per il puzzle dell’evoluzione e, mentre le raccogliamo, non possiamo non enfatizzare il ruolo della musica, scoprendo come sia la forma più antica forma di comunicazione umana. Ecco perché, quando troveremo tutti i pezzi e riusciremo a comporli, avremo finalmente risposto a uno degli interrogativi più affascinanti: perché ci piace la musica?


Fonte: La Stampa 13/02/2007
Autore: Steven Mithen
Cronologia: Preistoria

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