Benedetto XVI parla di nuovo di speranza. Non c’è dubbio che il concetto di speranza è forse una delle innovazioni più significative che la cultura cristiana abbia introdotto nel pensiero antico. Anzi, nei primi secoli della nostra epoca, era un’idea talmente tangibile che l’escatologia dominava la vita dei primi cristiani; da un momento all’altro la storia si sarebbe conclusa, tra pochissimo.
Ed era talmente forte l’aspettativa che l’intervento sulla vita quotidiana, il lavoro, le fatiche per la durevolezza delle architetture, per esempio, sembravano vani. Se si cessa di costruire grandi edifici ambiziosi e se gran parte dei fabbricati del quarto e quinto secolo sono in materiali effimeri come il legno, non è tanto perché si sta sgretolando la cultura amministrativa precedente dell’impero, ma perché in fondo la speranza di un domani mattina salvifico è talmente coinvolgente da eliminare ogni desiderio di perpetuazione.
Ecco il motivo per il quale gran parte degli edifici protocristiani non saranno altro che la trasformazione assai rapida di strutture preesistenti, quali i templi pagani o le basiliche amministrative. Un’epoca curiosa, quella, dove il recupero architettonico non è dissimile dalla grande trasformazione in corso ai giorni nostri che vede l’immenso patrimonio dell’archeologia industriale alla ricerca di una nuova destinazione.
Ci vorrà la voglia imperiale della corte ravennate per rimettersi a costruire quell’edificio fenomenale di Sant’Apollinare in Classe che prende gli stilemi del mondo di prima e li proietta in un futuro lontano.
L’architettura torna ad essere speranza perché crede che verranno tanti secoli nuovi, a tal punto che riprende la passione per i mausolei, quello esemplare di Galla Placidia, poi immediatamente dopo quello del barbaro Teodorico che lascia un segno di pietra e recupera così la tumulazione degli antichi romani.
Il Medioevo si accorge presto che la fine dei tempi non è domani, ma che lungo sarà il percorso dell’approdo nella Gerusalemme Celeste, la quale rimane comunque il destino certo di tutta la comunità, a tal punto che appare regolare negli affreschi o in quell’incredibile grande lampadario di bronzo che il Barbarossa pone nel centro del Duomo di Aquisgrana voluto da Carlo Magno.
Poi il Medioevo primordiale evolve nel pensiero sofisticato della grande Scolastica e si ricompatta una cristianità moderna capace di assimilare anche il solido pensiero aristotelico per trasferirlo oltre il Rinascimento, nel patto definitivo della Controriforma.
La speranza diventa un dato stabile della cultura barocca e ne motiva la passione architettonica e legittima le ricerche tecniche sulla durevolezza delle opere.
L’escatologia diventa filosofica fino alle vette dubitative di Blaise Pascal. I primi passi della scienza che si sviluppa porteranno alla bulimia di sapere del positivismo e alla negazione di ogni prospettiva ultraterrena.
E si tenta di dimenticare la frase fondativa del Rinascimento umanista, così ben riassunta da Rabelais: meglio una testa ben fatta di una testa ben piena. Conseguenza ultima e deprimente sarà il pensiero agnostico recente detto «pensiero debole».
Ci ha salvato ultimamente la macrofisica che si è convinta del Big Bang (quindi della Creazione) e di un tempo complicato immerso in tante dimensioni ancora da scoprire. La scienza sembra suscettibile di concludersi, di avere una fine.E la filosofia riprende a galoppare. Jacques Attali sostiene ora che stiamo per avvicinarci alla terza fase del futuro dove non saremo dominati solo da materialismo e da mercato, ma dove verrà previsto un risorgimento umanista. In parallelo la creazione artistica riprende sottobosco fiducia in se stessa e crea valori pronti per il domani. Si riparte.
Fonte: AV Avvenire 02/12/2007
Autore: Philippe Daverio
Cronologia: Arch. Medievale