Uno stargate su Bologna etrusca e preromana ma anche il racconto di oltre due millenni di storia, quella che riemerge sfogliando gli strati sovrapposti dello scavo archeologico effettuato tra il 2006 e il 2009 nel centro storico di Bologna per costruire il parcheggio sotterraneo all’incrocio tra le via D’Azeglio e Tagliapietre.
Un’area che, seppur tra le alterne vicende che hanno riguardato la città di Bologna dall’VIII-VII sec. a.C. al rinascimento, appare sempre popolata e, in alcuni periodi, probabilmente sede di importanti attività religiose e produttive.
Pur danneggiate da escavazioni di età moderna effettuate per realizzare diversi sottoservizi (luce, acqua, gas, telefono, etc), le indagini archeologiche hanno dato esiti straordinari: non tanto per i materiali recuperati, alcuni certamente di grande pregio ma nessuno unico, quanto per la mole di informazioni che sono state in grado di fornire sulla storia di questo settore della città.
Con un tempismo davvero raro in questo campo -lo scavo si è concluso poco più di un anno fa- gli esiti delle indagini archeologiche sono confluite nel volume “Alla ricerca di Bologna antica e medievale. Da Felsina a Bononia negli scavi di via D’Azeglio” curato da Renata Curina, Luigi Malnati, Claudio Negrelli e Laura Pini.
La pubblicazione è stata presentata al Museo Civico Archeologico di Bologna dal Direttore scientifico della Fondazione del Museo “C. Faina” di Orvieto, prof. Giuseppe Maria Della Fina, con interventi del Soprintendente per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna, Luigi Malnati, della Direttrice del Museo Civico Archeologico, Paola Giovetti, del Consigliere delegato Bologna Park s.r.l., architetto Francesco Montanari e del Direttore Settore Italia Trevi S.p.A., Antonio Arienti.
Il volume -che fa parte della collana dei Quaderni di Archeologia dell’Emilia-Romagna- illustra uno dei tanti scavi urbani condotti negli ultimi anni a Bologna, una città estremamente interessante per precocità, continuità e intensità della presenza umana, dal grande e anonimo abitato villanoviano all’etrusca Felsina, dall’oppidum dei Galli Boi alla romana Bononia, dal declino tardo antico alla ripresa medievale fino al rinascimento e infine ai giorni nostri.
Se gli scavi urbani degli ultimi trent’anni hanno consentito una più chiara ricostruzione del tessuto urbano della città romana di Bononia, per quanto riguarda Felsina si fa spesso riferimento al lavoro di sintesi prodotto alla fine dell’Ottocento da Antonio Zannoni, ribadito a tutt’oggi da molti studiosi.
La frammentarietà degli interventi recenti, numerosi ma circoscritti, la massa di dati provenienti dai lavori condotti in passato, la difficoltà di riordinare e rielaborare una documentazione assai più ampia e scientificamente complessa di quella prodotta fino a 40 anni fa (spesso limitata a planimetrie sommarie e raccolte selettive dei reperti) sono le cause principali di questo “ritardo” nell’inquadramento storico di Bologna preromana.
Lo scavo di Via D’Azeglio consente un primo bilancio delle indagini che hanno toccato depositi archeologici di età preromana effettuati negli ultimi anni a Bologna, arricchendo considerevolmente il quadro generale dell’abitato dell’antica Felsina, considerata a buon diritto da Plinio Princeps Etruriae, un rango di capitale probabilmente mantenuto anche con i Boi.
Le indagini condotte nella piazzetta all’incrocio tra via D’Azeglio e Tagliapietre hanno messo in evidenza un’importante sequenza insediativa che, senza soluzione di continuità, copre un arco cronologico che va dal villanoviano all’età rinascimentale, tracciando un quadro articolato della frequentazione di una porzione di città ancora oggi densamente urbanizzata.
I precedenti riscontri archeologici relativi all’età preromana indicavano già una consistente frequentazione dell’area soprattutto per il periodo villanoviano, etrusco e celtico, mentre per le fasi di età romana e successive il territorio risultava connotato da un insediamento suburbano strettamente correlato al centro abitato di Bononia, prima, e alla città medievale/rinascimentale, poi.
La fisionomia urbanistica che si evidenzia dallo scavo di via d’Azeglio per l’età villanoviana-etrusca (fine del VII – inizi del IV secolo a.C.) sembra indicare in questo settore uno dei più popolati e nodali del centro abitato, connotato da un carattere prevalentemente insediativo e da un’attenta pianificazione territoriale.
Le caratteristiche dell’unico edificio di fase villanoviana e orientalizzante riconoscibile con chiarezza nello scavo di via D’Azeglio attestano bene l’evoluzione delle case di questo periodo.
L’edificio risale alla metà del VII sec. a.C.: orientato astronomicamente, a pianta allungata, rettangolare, fu costruito con tecniche edilizie che prevedevano l’uso massiccio del legno e forse l’impiego di elementi fittili a decorazione della copertura a doppio spiovente. Rispetto ad altre strutture abitative contemporanee, quello di via D’Azeglio è un edificio di considerevole impegno, con ampi spazi esterni diversamente articolati e la presenza di un pozzo con camicia in cotto, una realizzazione molto rara, quasi unica per questo periodo; tutti elementi che possono far pensare alla dimora di un aristocratico.
La lettura dei dati di scavo relativi al periodo tra il VI e V sec. a.C. (fase arcaica e classica) porta importanti novità per la conoscenza della storia più antica di Felsina. Nel VI sec. a.C. la città è oggetto di cambiamenti importanti, con ristrutturazioni edilizie profonde e modifiche dell’assetto insediativo. In questa fase, la città assume un impianto regolare orientato Nord-Sud e le tipologie delle abitazioni si allineano a quelle più complesse riscontrate a Marzabotto e nell’Etruria vera e propria: gli edifici sono più estesi, hanno ambienti coordinati e forse distribuiti attorno a spazi interni aperti, mentre all’esterno hanno tettoie su pali e pilastri. Prevale l’uso della pietra sia per le fondazioni sia per buona parte dell’alzato.
Le strutture di età tardo-orientalizzante rinvenute nello scavo, incluso il pozzo, sono smantellate nella seconda metà del VI sec.a.C., l’area centrale diventa uno spazio aperto, mentre a sud viene fondata un’imponente struttura muraria in blocchi lapidei, orientata est-ovest, che non ha uguali a Bologna; l’area aperta è occupata in parte da una fossa di scarico riutilizzata più volte. Nel corso del V sec. a.C. una nuova trasformazione urbanistica modifica l’assetto dello spazio aperto, con la realizzazione di strada carraia orientata est-ovest.
Nel periodo celtico, pur riscontrando una minore densità delle strutture abitative, si continua a percepire un’attività edilizia che presuppone una certa sistemazione degli spazi occupati, anche se più rarefatta e disorganica. Le fonti storiche non sono molto precise sulla cronologia del passaggio dei Boi in Emilia: sappiamo solo che avvenne prima dell’arrivo dei Senoni, all’inizio del IV sec.a.C. La documentazione dallo scavo di via D’Azeglio non è abbondante ma comunque significativa. Nel corso del IV secolo la precedente sede stradale, pur mantenendo la sua funzione di asse di percorrenza, viene parzialmente occupata da fondazioni leggere, strutture di difficile interpretazione che si integrano con gli edifici precedenti probabilmente ancora in uso; a questa fase segue un progressivo abbandono ed una riconversione in spazio aperto dell’area in precedenza così intensamente abitata.
I dati desunti dagli scavi di via D’Azeglio, uniti al complesso delle conoscenze relative a questo periodo storico indicano quindi una prima fase di continuità all’inizio del IV secolo a.C. che prevede anche un ripristino dei percorsi stradali, cui seguono episodi di incendio e destrutturazione che fanno pensare ad una crisi violenta della città etrusca. In seguito si assiste ad una nuova fase di insediamento, con una distribuzione delle abitazioni meno omogenea, orientamenti modificati e occupazione di spazi precedentemente aperti, destinati ora ad ospitare strutture apparentemente a carattere accessorio.
L’area assume una diversa connotazione nella fase di passaggio all’età della colonizzazione e nelle epoche successive. In età romana l’area si colloca subito al di fuori dal perimetro cittadino, in un ambito territoriale riconosciuto come il suburbio meridionale della colonia, connotato da un tessuto insediativo rarefatto e dai caratteri piuttosto sfumati. L’alternanza di edifici abitativi e possibili impianti di carattere produttivo, intercalati forse da ampi spazi liberi (come sembrano indicare le analisi polliniche), si associa alla presenza di strutture di natura pubblica, a carattere utilitario e religioso.
Le scoperte occasionali avvenute in passato per interventi edilizi o di sottoservizi restituiscono un quadro insediativo che raggiunge il massimo sviluppo nella media età imperiale. I rinvenimenti riconducono ad edifici residenziali con elementi architettonici e pavimentali anche di elevata fattura e ad edifici di minor pregio, che potrebbero essere riconducibili ad impianti produttivi o a modeste case di abitazione, normalmente ubicate nella prima periferia della città romana. Mancano invece i complessi sepolcrali: le poche sepolture rinvenute si riferiscono all’età tardo antica e altomedievale, a parte una stele funeraria reimpiegata nelle murature della Chiesa di San Procolo.
Se l’aspetto insediativo legato alla componente residenziale e produttiva è sufficientemente rappresentato dai rinvenimenti conosciuti, non è di minore importanza l’ubicazione in questo comparto di importanti infrastrutture civili che occupano alcuni limitati settori; nel suburbio meridionale infatti vengono generalmente ubicati, a sud, l’ultimo tratto dell’acquedotto che si doveva attestare nel castellum aquae ipotizzato all’incrocio tra via Farini e D’Azeglio e, a ponente, la presenza delle terme pubbliche, lungo via Saragozza.
Lo scavo di Via D’Azeglio ha documentato la presenza anche in quest’area di importanti infrastrutture pubbliche; le indagini archeologiche hanno infatti riportato in luce un’imponente struttura rettilinea (indagata per una lunghezza di circa 22 metri) costituita da un cunicolo interamente costruito in laterizi e successivamente interrato, che prosegue oltre i limiti dello scavo sia verso nord che verso sud.
Si tratta di una condotta idrica di particolare interesse per la tecnica con cui venne realizzata. Nel punto meglio conservato, la parte basale e il primo corso dell’alzato sono costituiti da una complessa sistemazione dei laterizi – semisesquipedali, tegole forate appositamente prodotte, sesquipedali e mattoni ad arco di cerchio – che risultano messi in opera in modo tale da creare una serie continua e regolare di aperture disposte verso le pareti terrose e ortogonali rispetto all’andamento della struttura. Una differente modalità costruttiva si rileva invece per le due spallette laterali che costituiscono l’alzato del condotto; per la loro costruzione vengono impiegati per lo più sesquipedali interi disposti nel senso della lunghezza in ordinati corsi orizzontali che creano un’orditura molto regolare del paramento, legati da un sottile livello di calce biancastra resistente; la copertura, non più conservata, doveva essere anche essa in laterizi disposti a doppio spiovente.
La condotta idrica, completamente interrata, doveva essere dotata di pozzetti d’ispezione/manutenzione posizionati ad intervalli regolari. La conformazione della struttura e la complessa tecnica costruttiva fanno pensare che in questo particolare punto del suo percorso il condotto captasse acqua di falda da convogliare successivamente verso nord, cioè verso la città. I dati di scavo non dicono quando la struttura sia stata costruita ma documentano un’importante rifacimento del fondo avvenuto nella prima età imperiale (quando quindi la struttura era già in parte degradata) e il suo abbandono tra la fine del I e II secolo d.C., seguito da profonde spoliazioni che si protraggono fino al III-IV secolo d.C.
Alcune caratteristiche del manufatto rendono plausibile annoverarlo tra le opere pubbliche realizzate a Bologna nei primi decenni del I sec. a.C. o negli anni immediatamente successivi, quando il tessuto insediativo dell’ex colonia, ora riformata in municipio (municipium), viene notevolmente potenziato e la città viene dotata di strutture di servizio e rappresentanza, in armonia con il generale clima di rinnovamento urbanistico e architettonico di questo periodo. Forse la conduttura era stata costruita proprio per fornire acqua agli edifici civici mentre i privati cittadini potevano sfruttare la falda con pozzi interni alle abitazioni. Quel che pare certo è che al momento della costruzione dell’acquedotto del Setta, la condotta idrica indagata in via D’Azeglio non fosse più funzionante o al massimo utilizzata solo marginalmente.
Il rinvenimento a breve distanza dalla massicciata stradale di un complesso di strutture (di cui una con pavimento mosaicato) parrebbe confermare la politica di migliorie sia architettoniche che funzionali apportate a quest’area tra la prima e la media età imperiale. Gli archeologi propendono per un’interpretazione della funzione sacra delle strutture, riconducibili, almeno l’edificio con mosaico, alla tipologia dei sacelli e dei piccoli impianti templari diffusi in ambito urbano ed extraurbano, spesso legati a particolari forme di religiosità. Esistono d’altronde in questo comparto territoriale altri indizi di edifici di culto: un’iscrizione recuperata vicino a Porta San Mamolo attesta la presenza di un santuario di Iside mentre, come si è detto, l’eredità culturale e cultuale della Felsina etrusca è ancora ben viva nella Bononia romana.
Nel corso del periodo tardo antico e altomedievale questo settore appare scarsamente frequentato, tanto da far pensare a un precoce abbandono di questo territorio, peraltro giustificato dalla sua esposizione ad incursioni e attacchi barbarici. La cerchia difensiva delle mura di selenite correva lungo l’attuale via Farini: l’area in questione era dunque priva di difesa.
Lo scavo ha restituito solo rari e sporadici elementi riconducibili al periodo compreso tra il IV e VI secolo e poi ancora al periodo altomedievale, segno di un declassamento di questo settore che tanta attività aveva registrato precedentemente. Già a partire dal III-IV secolo molte città emiliane cominciano a mostrare i primi segni di rarefazione della maglia urbanistica, che tornerà a riprendersi solo molti secoli dopo, in piena età medievale.
Mancano sostanzialmente materiali databili tra il VI e l’XI secolo, se si esclude una sepoltura (l’unica in assoluto rinvenuta nello scavo) in fossa terragna con inumato supino risalente ai secoli centrali del Medioevo.
A partire dall’XI secolo si assiste all’effettiva e irreversibile rinascita di Bologna, quando si pongono le basi sia dello Studio che del Comune, fattori grazie ai quali la città diventerà nel Duecento una delle più vaste e popolate d’Italia e d’Europa, racchiusa a partire dal Trecento da un circuito di mura che non sarà superato per mezzo millennio.
La cerchia muraria dei torresotti, realizzata tra l’XI e il XII secolo, era tangente all’area di scavo, con due delle sue 17 porte posizionate in via d’Azeglio e via Tagliapietre. Se verso sud la cinta dei torresotti, (lunga 4300 metri) ingloba borghi estranei al perimetro dell’urbanizzazione romana più intensiva ciò è anche dovuto al decollo economico, demografico e urbanistico dello Studio bolognese che, almeno fino alla seconda metà del Cinquecento, fa capo soprattutto sull’area di san Procolo dove sono ubicate tanto le scuole dei giuristi quanto quelle degli artisti: Forse per questo a partire dal XII secolo assistiamo a una lenta ripresa dell’occupazione di tipo insediativo e alla riorganizzazione dell’area probabilmente legata alla realizzazione del nuovo sistema difensivo che dovette essere messo in opera nel corso di un lungo arco di tempo e alla fondazione del monastero di S. Procolo.
Nel corso del XIII secolo si apprezzano i segni di una rinnovata e intensa frequentazione di questo settore della città interessato da attività prettamente artigianali: le strutture individuate sono state infatti interpretate come fornaci da gesso. Le tracce gessose lasciate sui piani interni sembrano descrivere in modo puntuale le “cariche” di materia prima, impilata sul piano di cottura in blocchi di piccole dimensioni. Si formavano così una serie di tunnel sviluppati in profondità entro i quali si inseriva il combustibile in modo da distribuire uniformemente il calore.
Queste strutture a carattere produttivo inseriscono il contesto di scavo in un panorama artigianale coerente, in grado di gettare luce su un’importante aspetto dell’organizzazione economica della città tardo medievale.
Questo settore artigianale sembra funzionare a pieno regime tra il XIII e il XIV secolo entro un’area delimitata ad oriente dal corso di un vecchio alveo dell’Aposa e, ad occidente, dalla Via di San Mamolo che appare come il principale itinerario in uscita dalla città verso la collina e i tragitti pedemontani.
Tra gli ultimi decenni del Trecento e la prima metà del XV secolo l’area è contraddistinta dalla presenza di almeno sei cisterne realizzate quali fosse di scarico ad uso domestico. L’area appare oggetto di una riorganizzazione globale degli spazi, con una parte a destinazione insediativa e la parte centrale adibita a spazio cortilivo.
A partire dal XVI secolo si assiste alla progressiva trasformazione dell’area in spazio aperto, anche se alcuni indizi mostrano per un lungo periodo una continuità d’uso e strutture prima dello spianamento che la contraddistingue ancora oggi.
Conclusioni
Negli ultimi anni questo settore meridionale del centro storico ha visto svolgersi numerosi scavi archeologici stratigrafici realizzati soprattutto nell’ambito di interventi edilizi: ricordiamo quelli in via S. Caterina, Frassinago, Barberia, ancora D’Azeglio (durante la ristrutturazione di Palazzo Legnani-Pizzardi), Capramozza e in viale Aldini.
La complessità delle stratigrafie individuate nello scavo di via D’Azeglio, il riconoscimento di un’importante sequenza strutturale e insediativa riscontrata in particolare per l’età protofelsinea e felsinea, ha suggerito di completare il quadro conoscitivo attraverso la comparazione e l’edizione preliminare di altri due importanti scavi archeologici, quelli di via Capramozza e di viale Aldini, eseguiti quasi contemporaneamente e situati entrambi a breve distanza dall’intervento di via D’Azeglio.
Bisogna riconoscere ai curatori del volume una grande capacità organizzativa ed un forte senso di responsabilità istituzionale e scientifica. È raro che in così poco tempo dalla conclusione dello scavo sia non solo disponibile l’edizione scientifica ma vi sia anche la possibilità di vedere restaurati una buona parte dei reperti. Il lavoro occorso per dare notizia in tempi brevi di uno scavo particolarmente articolato è frutto della sinergia di studiosi di diverse discipline (archeologi, archeobotanici, zoologi, biologi) che hanno elaborato i dati raccolti nel corso delle attività sul terreno, restituendo un quadro interpretativo di grande interesse. Va anche ricordato l’apporto fondamentale di tanta parte del personale scientifico e tecnico della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna (restauratori, fotografi e disegnatori) che hanno operato in quello spirito di collaborazione e reciproca stima che rende possibili risultati di eccellenza.
È infine importante sottolineare la stretta collaborazione con il Comune di Bologna e il soggetto esecutore della costruzione del parcheggio sotterraneo, Bologna Park s.r.l., che ha permesso di condividere le principali scelte operative e di realizzare gli obiettivi prefissati, conciliando l’acquisizione integrale dei dati conservati nel sottosuolo con la realizzazione dell’opera progettata.
Info:
Borgo San Lorenzo (FI), All’Insegna del Giglio, 2010, 256 pagine, euro 28,00