Immersa tra i boschi della «valle piú verde d’Italia», la chiesa di San Giovanni al Monte è un luogo in cui il tempo si è fermato e che racchiude in sé il Medioevo alpino…
Un ripido sentiero corre attraverso boschi odorosi e conduce alla chiesa di S. Giovanni sopra Quarona (Vercelli). L’ampio sagrato offre un panorama luminoso della valle, tutta protesa tra i colori delle fioriture primaverili e il cielo terso.
Il sito dove sorge la chiesa si trova a metà della costa del monte detto «dei Tucri». Nel V secolo vi viene costruito un battistero, dal quale prese origine la chiesa romanica oggi esistente.
Il luogo ha restituito testimonianze riferibili già all’età romana: scavi archeologici condotti sulla struttura hanno infatti portato alla luce il frammento epigrafico di una dedica sepolcrale del II secolo, resti di lucerne e di ceramiche databili tra il I e il II secolo d.C. Vari sono poi i materiali ascrivibili alla tarda antichità e all’Alto Medioevo, tra i quali meritano attenzione due frammenti epigrafici cristiani del V secolo e due sarcofagi di poco successivi. Questi reperti permettono di fissare una cronologia preziosissima sull’insediamento primitivo di S. Giovanni, che risulta, quindi, essere una fondazione paleocristiana legata all’edificio battesimale. Al centro si trovava la vasca in muratura, di forma esagonale, riferibile per le dimensioni alla pratica dell’amministrazione del Battesimo per immersione.
La Vergine incoronata
Grazie a una ristrutturazione architettonica, compiuta tra l’XI e il XII secolo, si giunge alla realizzazione dell’attuale chiesa romanica a due navate, quella di sinistra dedicata a San Giovanni, dal quale prende nome l’intero complesso, e quella di destra dedicata a Santa Maria, come testimoniano i preziosi affreschi del catino absidale raffiguranti l’Incoronazione della Vergine e ascrivibili al XIV secolo. Di pregio elevatissimo è l’immenso e prezioso repertorio iconografico. I cicli di affreschi si susseguono nei secoli, venendo di volta in volta in parte ricoperti da nuovi strati pittorici, in parte conservati o inglobati in realizzazioni successive. La grande campagna decorativa dei secoli XV e XVI testimonia il radicale intervento di rilancio devozionale della chiesa, con l’arricchimento dell’apparato decorativo del tardo Duecento e del Trecento. Tra gli affreschi duecenteschi vi sono uno ieratico San Michele Arcangelo e un possente San Cristoforo, oltre a una Madonna in trono con il Bambino affiancata da San Giovanni Battista e San Pietro, testimonianza dei culti presenti. Nell’abside, al di sotto dell’Incoronazione della Vergine, sta una teoria di Santi, preziosissima testimonianza pittorica dei culti ai santi locali, tra i quali spiccano San Gaudenzio, patrono e protovescovo della diocesi novarese e i Santi Giulio e Giuliano, tradizionali evangelizzatori di queste terre. Lo stile compositivo risente di influenze bizantine, presentando la figura umana in posizione rigida e frontale che rimanda, visivamente, alle miniature medievali.
Un Vangelo dipinto
Vero e proprio Vangelo a pagine aperte è il ciclo quattrocentesco delle Storie della Vita di Cristo che decora il lato destro della navata. Il modello della parete verrà ripreso e reso immortale dal grande maestro valsesiano Gaudenzio Ferrari nel realizzare la parete della chiesa di Santa Maria delle Grazie a Varallo, prologo e sintesi dell’opera del Sacro Monte. Stupiscono l’abilità compositiva e la semplicità delle figure, quasi derivazione di piú antichi stilemi giotteschi, segno di un Medioevo che, in queste zone, sembra attardarsi fino ai primi anni del Cinquecento. Toccanti e particolarmente cari alla devozione popolare sono alcuni affreschi del tardo Quattrocento che si riferiscono al martirio della Beata Panacea.
La giovane Panacea de’ Muzzi (1368-1383) subí l’ira della matrigna nelle vicinanze della chiesa, dove si era ritirata in preghiera tardando a rincasare sul far della sera. La donna colpí Panacea con un fuso o un bastone, uccidendola. Le campane della chiesa iniziarono a suonare all’impazzata, mentre il fascio di legna raccolto poco prima dalla fanciulla iniziò a bruciare. L’iconografia della beata, ancora oggi invocata come patrona della Valsesia, ritrae sempre la pastorella con in mano la rocca e il fuso, strumenti del martirio, circondata dalle pecore che, come le giovani di queste terre per lunghi secoli, soleva pascolare.
Autori: Monica Ingletti, Giacomo Gagliardini
Fonte:
www.Medioevo.it n° 161 Giugno 2010