Affacciata sul mare ma legata alle ricchezze minerarie del proprio territorio, Populonia rappresentò, per secoli, uno dei principali centri industriali del Mediterraneo.
Oggi la storia della città etrusca riemerge dai numerosi scavi allestiti all’interno di un Parco unico, e da un grande Museo archeologico.
Il disegno illustra il lavoro in una miniera nei monti intorno a Populonia in età preindustriale.
In quest’area, l’attività di estrazione di rame, piombo e argento è documentata sin dall’età etrusca, mentre il metodo di estrazione, mediante lo scavo di gallerie e pozzi che seguivano il filone metallifero, rimase tale fino all’età medievale.
Fortunati loro. Fortunati e saggi, questi uomini dell’età del Ferro. Da invidiare per quello che si sono regalati. Quasi mille anni prima di Cristo si arrampicarono sulle rocce di questo promontorio, allora terra solitaria, che oggi è conosciuto come il poggio del Molino. E, voglio crederlo, rimasero incantati: l’orizzonte del Tirreno era straordinario, lontane isole sconosciute chiudevano un paesaggio marino da meraviglia. Verso sud le scogliere si rincorrevano all’infinito e il vento di maestrale rendeva il clima mite, anche nelle estati piú torride.
Quegli uomini villanoviani scelsero di fermarsi nel punto piú alto del promontorio. Decisero che il loro villaggio sarebbe sorto proprio lí. Vicino al cielo, vicino al mare. Scavarono la roccia per piantare i pali che dovevano sorreggere i tetti di frasche delle loro capanne dalle pareti di argilla. Sono sempre piú sicuro: fu la bellezza di questo luogo, la bellezza di questo panorama (loro dovettero credere – e con qualche ragione – che fosse il piú bello del mondo) a convincerli a vivere qui, dove, grazie a questa decisione, piú tardi sorse Populonia. L’unica città etrusca sul mare è figlia della bellezza.
Dalle fornaci agli altiforni
Sí, so bene che chi decise di insediarsi fra il golfo di Baratti e le scogliere del promontorio di Piombino già sapeva delle ricchezze minerarie delle colline del primo entroterra toscano. Fin dall’antichità, in queste terre, l’uomo fu cercatore di metalli nobili (piombo, zinco, argento), minatore sulle pendici del monte Calvi, operaio siderurgico, primo addomesticatore del ferro nella piana a ridosso della spiaggia di Baratti. Gli Etruschi colonizzarono questa regione costiera per le ricchezze del suo sottosuolo. E un filo rosso cominciò allora a dipanarsi: era destinato ad allacciare i destini antichi di Populonia, il piú importante centro siderurgico dell’antichità mediterranea, alle colline metallifere di Campiglia; i forni etruschi di Baratti, agli altiforni accesi oltre duemila anni dopo a Piombino.
Questa non è solo la storia di un paesaggio di grande incanto, è la cronaca, lunga due millenni, della fatica tenace, quasi disperata, di migliaia di uomini, del loro lavoro, di fumi di roghi che hanno arroventato per secoli il ferro dell’Isola d’Elba, di fabbri capaci di piegare il metallo centinaia e centinaia di anni prima di Cristo, di minatori che, già in età etrusca, scavarono profonde gallerie pur di contendere alla terra i suoi preziosi minerali.
La marina di Baratti e la cittadella fortificata di Populonia (il suo nome può derivare da puple, «germoglio», o da Fufluns, la divinità etrusca che ricorda Dioniso-Bacco) ingannano il viaggiatore contemporaneo: gli occhi di chi, nei secoli piú antichi, era chino sulla forgia, non avevano tempo per godersi lo splendore di questo mare.
Una nube perenne di fumo.
Le ricostruzioni della zona «industriale» dell’antica città etrusca (bellissimi i pannelli esposti nei percorsi del Parco archeologico di Baratti e Populonia) mostrano un paesaggio disboscato e un cielo livido: il fumo dei roghi era una nuvola perenne, gli alberi venivano abbattuti per alimentare i forni e le sorgenti erano piú che sfruttate. Le foreste e le riserve di acqua fecero di Populonia una città siderurgica. Qui venivano trasportati i minerali di ferro dell’Isola d’Elba. Per essere fusi e lavorati.
Ma gli uomini che abitavano il primo villaggio sulle alture del poggio del Molino avevano anche costruito, per la loro vita eterna, le grandiose tombe della necropoli della piana di Baratti. Il nobile sconosciuto che aveva vissuto nella capanna di argilla sulla vetta del promontorio volle, per il suo viaggio nell’aldilà, la superbia della grande Tomba dei Carri, nella quale si fece seppellire, appunto, assieme a un carro da corsa e a un calesse decorato con lamine di bronzo.
Tonnellate di scorie
Per decenni e decenni, a Baratti, generazioni di archeologi celebri hanno riportato alla luce sepolcri, tombe regali, grandi necropoli. Sono state scoperte straordinarie, ma è stato come se tutti si fossero dimenticati che Populonia era anche una città grande e vitale (si calcola che nel V secolo a.C. fosse abitata da 6000 persone, mentre oggi la rocca-castello non ha che poche decine di residenti).
Questa città etrusca ha battuto moneta fin da cinque secoli prima di Cristo, immigrati greci e spagnoli approdavano a frotte in questo angolo di Maremma in cerca di lavoro. I metallurghi di questa antichità siderurgica hanno accumulato, nella piana a ridosso del golfo di Baratti, due milioni e mezzo di tonnellate di scorie ferrose, hanno coperto di scarti della lavorazione del ferro una superficie di 200mila mq. Navi di Marsiglia e dei principali porti mediterranei incrociavano le rotte che conducevano al porto di Populonia (quesito ancora irrisolto dove fosse localizzato), per imbarcare quel metallo cosí prezioso per le loro economie.
La prima capanna
Da pochi mesi, i visitatori dell’area archeologica di Populonia, come quelle antiche genti villanoviane, possono salire sulla collina del promontorio e scoprire con i loro occhi ciò che rimane di una città grandiosa. Possono perfino ammirare il luogo dove fu costruita la prima capanna delle genti dell’età del Ferro e immaginare i grandi templi (eretti già in età romana) che sorgevano a un passo dalla scogliera. Qui, dove ora c’è una fitta e bellissima boscaglia di mirto e lentisco, vi erano edifici sacri, santuari, grandi strade lastricate, un’immensa cisterna che raccoglieva l’acqua piovana. Una città ricca e potente, protetta da muraglie poderose (difendono un’area vastissima: oltre duecento ettari di territorio), che guardava dall’alto le sue industrie disseminate per la piana di Baratti.
Le città possono morire
Ma le città possono morire. Lo scrive, con malinconia, Claudio Rutilio Namaziano, messo imperiale e grande poeta: approdò a Populonia nel 417 d.C. e scrisse: «Non è possibile riconoscere i resti di epoche trascorse, il tempo vorace ha distrutto le grandi mura».
«Perché Populonia muore? – si chiede Maria Aprusio, coordinatrice del Parco Archeologico –. Non lo sappiamo ed è come se questo mistero regalasse ancor piú fascino a questa città». Muore giovane, Populonia. La sua gloria piú grande è fra il IV e il III secolo a.C. Sono gli anni in cui comincia l’ascesa di Roma. È vero: Populonia, come altre città ribelli, scelse di allearsi con il popolano Caio Mario nella sua guerra contro l’aristocratico Lucio Cornelio Silla. Pagò un prezzo pesante per quella alleanza sfortunata. Fu ferocemente assediata (e i suoi difensori arrivarono a fondere il piombo del tetto del santuario delle Logge pur di approntare le ultime munizioni), espugnata, umiliata: molti dei suoi abitanti furono giustiziati, i loro beni confiscati. Ma altre città (Volterra, per esempio) si sono riprese da quella impietosa guerra civile: perché Populonia non è riuscita a rialzarsi?
Roma imperiale non aveva piú interesse a tenere in vita i forni del ferro. Poteva rifornirsi altrove. «Delocalizza» la produzione del ferro in altre terre del suo infinito impero. E la città, lentamente, attorno all’anno zero, comincia a scomparire. Calò il silenzio sulla bellezza del golfo di Baratti. Rimanevano solo, oltre le mura, le colline nere delle scorie ferrose, gli scarti di sei, sette secoli di industria siderurgica.
Una rinascita breve
Solo attorno al IX secolo d.C., monaci benedettini attirarono le attenzioni dei cronisti medievali: avevano costruito il superbo monastero di S. Quirico a poche centinaia di metri dalle rovine di quelle antiche mura etrusche. E qualche fabbro itinerante riaccese anche forni fusori stagionali. Ma fu vita breve: nel XIV secolo questo cenobio troppo remoto fu abbandonato. Dal 2002, nei boschi del promontorio di Piombino sono in corso campagne di scavo e sono tornati alla luce il chiostro e il pozzo dell’antico convento.
Non solo: nel XIV secolo, l’energia idraulica rivoluziona l’industria siderurgica. I forni di Populonia non furono mai piú riaccesi. E l’industria del ferro toscana comincia la sua breve migrazione: è destinata a cambiare versante del promontorio, dal golfo di Baratti si sposta, nel tempo, a Piombino e Follonica. Sbarcherà all’Isola d’Elba, a poca distanza dai filoni minerari.
E nessuno conservò il ricordo delle colline nere di Baratti. Ancora nell’Ottocento, il diplomatico inglese George Dennis, diretto per cammini impervi al castello di Populonia, annotava nel suo diario: «Non una vela, né una barchetta ombreggiava le acque che riflettevano solo una corona di dune gialle». Populonia era davvero una terra remota.
Solo nel Novecento, l’ansia della grande e nuova industria siderurgica si ricordò di quanto avevano scartato i metallurghi etruschi. Quei detriti contenevano ancora una percentuale fra il 52 e il 59% di ferro utilizzabile, che la tecnologia etrusca non era stata capace di estrarre dall’ematite. Fu come imbattersi in una miniera imprevista: ingegneri svizzeri, agli inizi del secolo scorso, calcolarono che, a ridosso della spiaggia di Baratti, vi erano almeno 800mila tonnellate di ferro commerciabile. Troppe per non sfruttarle. Furono necessari quasi quarant’anni di lavoro, dal 1921 al 1958, per esaurire la «miniera a cielo aperto» lasciata in eredità dai fabbri etruschi. E sotto la coltre delle scorie riapparvero, quasi intatte, le necropoli perdute di Populonia.
A mani nude nei pozzi
Il filo rosso dei metalli si arrampica dalle sponde del Tirreno fino alle colline-montagne dell’entroterra. Mentre a Baratti fumavano i forni fusori, a pochi chilometri di distanza clan etruschi seguirono, come geologi, le vene del rame, del piombo e dell’argento fra le rocce del monte Calvi. Quasi a mani nude, questi minatori dell’antichità (VII-I secolo a.C.) scesero, aprendo pozzi verticali, fino a 100 m nel ventre delle colline del Campigliese. Cercavano i minerali indispensabili per battere moneta. Roma, invece, ignorò queste miniere e preferí sfruttare i giacimenti della Sardegna e della Spagna.
Nel Medioevo, attorno all’anno Mille, appare, nelle cronache locali, un castello fino ad allora sconosciuto. Sorge su uno sperone di roccia bianca, in posizione strategica, aggrappato allo spartiacque fra la valle del Temperino e quella dei Manienti. Appartiene a una piccola famiglia di feudatari, vassalli dei potenti signori Della Gherardesca. Non è un caso che sia stato costruito in vetta a questa cima aguzza: attorno alle sue mura si incrociano filoni e vene minerarie. È un castello operaio: qui, nel 1200, momento della sua gloria maggiore, vivono una cinquantina di famiglie. Duecentocinquanta persone che scavano pozzi e gallerie alla ricerca di rame, piombo e argento, destinati alle Zecche di Pisa e di Lucca.
Nelle carte del 1108, il castello è indicato come la Rocca a Palmento, ma la sua chiesa è consacrata a San Silvestro. «È una vera fortezza: sembra fuoriuscire dalla roccia sulla quale fu costruito», spiega Silvia Guideri, direttrice dei Parchi Archeologici della Val di Cornia. Lei, da giovane studentessa, arrivò qua nel 1984: un intuito straordinario (e la sua testardaggine) aveva condotto il medievista Riccardo Francovich sulle tracce di questa rocca perduta. Cominciò allora una esaltante campagna di scavi e ricerche.
Le fortune economiche del castello di San Silvestro non potevano resistere alla concorrenza delle miniere della Sardegna e di Massa Marittima. Attorno alla fine del 1300, la rocca è abbandonata.
Cosimo I de’ Medici, nel XVI secolo, cercò di riprendere gli scavi: fece addirittura venire minatori tedeschi («i Lanzi», invisi ai Campigliesi), per riaprire le antiche gallerie. Ma la loro avventura non durò piú di venti anni: sventrarono la collina, aprirono grandi miniere a cielo aperto, ma non riuscivano a liberare il minerale dalle impurità. Fu un tentativo senza futuro. Il versante tirrenico del monte Calvi cominciava a diventare simile a una sorta di groviera: gli archeologi hanno censito almeno duecento ingressi di miniere scavati prima del XX secolo.
Come a Baratti, solo nel Novecento i preziosi minerali del Campigliese attirano le nuove e avide attenzioni di un capitalismo trionfante: una multinazionale inglese, l’Etruscan Copper Estate Mines, riaccese i furori minerari a Campiglia. In soli sette anni (cosí poco è durata la sua vita) costruisce villaggi minerari, scava gallerie, apre cinque nuovi pozzi, monta una ferrovia a scartamento ridotto, alza imponenti edifici industriali. Fu un’avventura ai limiti della follia, che cambiò la geografia del monte Calvi. Fu la miccia che segnò il nuovo avvio delle miniere.
La fine di un’epopea
È una storia che, nonostante il fallimento della società inglese, arriva fino a noi: nel Novecento le miniere di Campiglia hanno dato lavoro alla gente di queste colline. Al pari delle ferriere di Piombino, giú sulla sponda del Tirreno. E se gli altiforni delle acciaierie piombinesi oggi sono tenuti in vita da una multinazionale russa, le miniere di Campiglia non hanno resistito alla globalizzazione. Dopo disperate battaglie sindacali hanno chiuso quasi trent’anni fa. Da allora, è stato il lavoro di archeologi come Francovich a difendere questo territorio dall’abbandono e, peggio, dai rischi di cave impietose (che ancor oggi stanno tagliando a fette le colline). È stata l’archeologia migliore a restituire grandiosità al Medioevo di questa terra e dignità ai minatori contemporanei: il Parco Archeominerario di San Silvestro (nuovi stabilimenti e nuove gallerie sono visitabili dallo scorso anno, al suo interno è stato anche riattivato il treno minerario), in un paesaggio da meraviglia mediterranea, racconta una storia straordinaria.
La Val di Cornia
Questo lembo di Toscana, fra Piombino e Populonia, fra i boschi di Montioni e i paesi-gioiello di Campiglia, Suvereto o Sassetta, fra le dune di Rimigliano e le rocce del monte Calvi, è una terra a suo modo strana. Per secoli e secoli è stata terra di fatica e di lavoro duro. Era conosciuta solo come luogo di ferriere e di miniere. Fino a pochi decenni fa, queste erano regioni malariche.
Il nome della piana alle spalle del promontorio di Piombino è quasi sconosciuto: provate a chiedere a un turista steso al sole della spiaggia di Baratti se conosce l’esistenza di un fiume chiamato Cornia. Eppure questa terra è figlia di questo fiume breve, la sua geografia di paludi (c’è voluto un secolo, fra l’Ottocento e il Novecento, per bonificarle) era erede dei detriti che lui stesso trasportava verso il mare. Oggi viviamo l’ultima metamorfosi della Val di Cornia: le miniere hanno esaurito la loro vita millenaria, l’antica Populonia è tornata alla luce (e i visitatori possono ripercorrerne le antiche strade selciate), le stesse acciaierie di Piombino, discendenti della siderurgia etrusca, non sono piú una incontestabile monocoltura economica. Ferriere e miniere, come un paradosso, hanno nascosto, nei decenni pericolosi, negli anni del cemento sulle coste italiane, la bellezza di questa terra. Gli archeologi, con tenacia e puntiglio, ne hanno fatto emergere, in decenni di lavoro, una memoria eccezionale.
Oggi è l’Età del Turismo: speriamo che sappia conservare lo splendore di questi luoghi. Perché è una bella storia quella che ricomincia là dove tutto iniziò tremila anni fa: andate ai Massi, nel punto piú alto della scogliera di Populonia, in quel luogo dove quell’uomo dell’età del Ferro decise di costruire la sua prima capanna. Il paesaggio di mare che guarderete con emozione è lo stesso che videro i suoi occhi.
Un museo per il territorio
Culturalmente e funzionalmente connesso al Parco Archeologico di Baratti e Populonia, il Museo Archeologico del Territorio di Populonia è uno dei principali poli espositivi della Provincia di Livorno e illustra, attraverso suggestive ricostruzioni dei paesaggi, delle attività e degli ambienti antichi, le trasformazioni legate al popolamento del promontorio dalla preistoria fino all’età moderna. Per la quantità e la qualità dei materiali in dotazione, il Museo riveste un ruolo di rilievo nell’offerta culturale e turistica di ambito toscano e nazionale.
Nel complesso (1800 mq circa, disposti su tre piani) il Museo ospita oltre duemila reperti, tra manufatti preistorici, oggetti provenienti dagli scavi delle necropoli etrusche di Populonia e materiali di epoca romana e tardoantica. Tra questi, la celebre anfora d’argento, rinvenuta nel 1968 nel tratto di mare tra Baratti e San Vincenzo, una vera e propria attrazione e simbolo del Museo.
L’uomo, la terra, le risorse
I materiali esposti e il loro allestimento mirano a documentare la lunga storia che si è susseguita sul promontorio di Populonia e nel suo entroterra. Si è voluto offrire al territorio e alle comunità della Val di Cornia un luogo in cui la storia del territorio di Populonia sia raccontata non solamente attraverso l’esposizione dei reperti rinvenuti in decenni di ricerca, ma anche con l’ausilio di materiale didattico che guidi il visitatore a orientarsi all’interno delle tematiche storico-archeologiche. A tal fine sono state elaborate ricostruzioni grafiche di ambienti e paesaggi, che accanto a vere e proprie ricostruzioni plastiche facilitano la lettura e la contestualizzazione dei reperti.
Filo conduttore per la lettura di questo Museo è il rapporto tra uomo, territorio e risorse; il tema della siderurgia infatti attraversa il territorio populoniese in maniera diacronica, con un percorso ideale che dal mare, attraverso le eccezionali testimonianze delle attività produttive di età etrusca, giunge alle imponenti strutture della Piombino industriale.
La scelta di Piombino come sede del Museo, oltre a costituire un impegno culturale nei confronti del maggiore centro della Val di Cornia, è stata dettata dalla convinzione che l’eredità della antica città siderurgica di Populonia sia oggi proprio la città industriale: in tal senso il Museo diventa il filo rosso che unisce il passato con il presente.
Un sistema integrato
L’inaugurazione del Museo ha seguito di soli tre anni quella del primo lotto del Parco Archeologico di Baratti e Populonia (oggi costituito da oltre 90 ettari di aree archeologiche valorizzate e fruibili con il supporto di servizi didattici e di accoglienza). Parco e Museo Archeologico del territorio di Populonia sono, a loro volta, parte integrante del piú vasto progetto di valorizzazione dei beni culturali e ambientali, noto come «Sistema dei Parchi della Val di Cornia», gestito dalla omonima Società che, in qualità di soggetto strumentale costituito per la valorizzazione del patrimonio culturale locale, collabora da anni con la Soprintendenza per i Beni Archeologici, le Università e gli Enti Locali nel raggiungimento di questo obiettivo.
Grazie a queste intese, oggi si dispone di una «rete» di servizi culturali in grado di documentare le dinamiche del popolamento, delle attività lavorative e delle trasformazioni del territorio della Val di Cornia, del tutto inimmaginabile se ciascun soggetto avesse operato per proprio conto, separando tutela, ricerca e valorizzazione.
Il Museo è nato e si sviluppa grazie alla costante collaborazione fra le diverse istituzioni preposte alla ricerca, alla tutela e alla valorizzazione, a riprova del fatto che con il dialogo e la concertazione si può raggiungere agevolmente il comune obiettivo di far conoscere, capire e conservare il nostro patrimonio archeologico.
Il ricco patrimonio archeologico che costituisce l’oggetto dell’esposizione museale è stato trasferito al Museo in virtú di una innovativa convenzione stipulata fra Ministero per i Beni e le Attività Culturali (Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana), Parchi Val di Cornia Spa e Comune di Piombino, sulla base dei principi legislativi che regolano i rapporti di collaborazione fra Stato, Regione, Enti Locali e Imprese Culturali. Il progetto scientifico di allestimento del Museo è stato curato dal Dipartimento di Archeologia dell’Università di Siena e in particolare da Daniele Manacorda, coadiuvato da un’ampia équipe di specialisti e di archeologi, coordinati da Giandomenico De Tommaso.
Il percorso espositivo
Il Museo del Territorio di Populonia si trova nel Palazzo Nuovo, costruito nell’area dell’antica Cittadella di Piombino nel 1814 per la corte dei Principi di Piombino, Felice ed Elisa Baciocchi, sorella di Napoleone Bonaparte, e restaurato come sede espositiva nel 2001.
L’esposizione si articola sui tre piani dell’edificio: il primo è dedicato alla storia moderna della città di Piombino e del suo territorio; il secondo alla preistoria e alle fasi piú antiche della società etrusca di Populonia; il terzo allo sviluppo della città dall’età classica alla romanizzazione, fino agli esiti dell’età tardoantica e medievale.
Il filo rosso che lega la sequenza delle sale è costituito da sette vedute a volo d’uccello che propongono altrettante ricostruzioni del paesaggio urbano e rurale di Populonia, dalla preistoria fino all’epoca del recupero delle scorie etrusche a fini industriali degli inizi del 1900.
La prima veduta, quindi, introduce ai paesaggi della preistoria e descrive come doveva essere l’area del promontorio nel Paleolitico, quando Elba, Sardegna e Corsica erano unite alla terraferma, e al posto del mare e del golfo di Baratti si estendeva una vasta pianura e la foresta dominava le colline.
L’esposizione prosegue secondo una sequenza cronologica, e dopo le successive fasi pre e protostoriche (Neolitico, età del Bronzo, ecc.), si giunge all’età etrusca. E già in età orientalizzante, tra la seconda metà dell’VIII e il VII secolo a.C., l’intensificarsi dei contatti con il mondo fenicio e greco favorisce il sorgere di un’aristocrazia che detiene il possesso delle risorse minerarie, dirige le scelte produttive e gestisce il rapporto della comunità con l’esterno, ottenendo in cambio merci pregiate. Appaiono le grandi tombe a tumulo che nella pianta riflettono la struttura delle dimore aristocratiche e, nella grandiosità del progetto, rivelano la volontà di prevedere la possibilità di seppellire anche le generazioni future. E, nei corredi, vi sono oggetti preziosi provenienti dall’Etruria meridionale, dalla Grecia e dal mondo fenicio.
La ricostruzione della città alla metà del VI secolo a.C. introduce al periodo che meglio esprime il consolidamento delle ricchezze e del potere di Populonia. Nella seconda metà del VI secolo a.C. la costruzione di una prima imponente cinta muraria è il segno piú eloquente di un avviato processo di urbanizzazione. Ancora perlopiú nota dai rinvenimenti funerari, la Populonia di età classica è una città ormai ben strutturata dal punto di vista sociale: la comparsa di architetture tombali a forma di tempietto segnala l’emergere di un ceto abbiente che nel controllo e nella gestione delle attività connesse alla metallurgia si affianca, o si sostituisce, all’élite aristocratica dei secoli precedenti.
Una fioritura ininterrotta
Della prosperità di Populonia tra il V e il IV secolo a.C., quando altri centri dell’Etruria tirrenica sembrano colpiti da una sorta di recessione, è testimonianza non solo la straordinaria qualità della produzione bronzistica, ma soprattutto la continuità delle importazioni ceramiche ateniesi, che perdurano per tutto il V e IV secolo, anche con prodotti di pregio. La fioritura di Populonia continuò pressoché ininterrotta nel corso del IV e del III secolo a.C., quando la città è una delle piú grandi metropoli del mondo etrusco.
Il segnale piú esplicito dell’ingresso di Populonia nell’orbita di Roma è costituito dal tracciato della via Aurelia, che attraversa il territorio della città etrusca nella pianura tra il promontorio e le colline del Campigliese, costruita tra il 259 e il 241 a.C. per congiungere Roma a Pisa. Ma le strade non erano l’unico mezzo di spostamento: le merci viaggiavano, infatti, perlopiú per mare e l’intensificarsi degli scambi fra il III e il II secolo a.C. è testimoniato dai numerosi relitti di questo periodo inabissatisi nelle acque del promontorio, il piú noto dei quali è quello «del Pozzino», dal nome della cala piú vicina.
Nel II secolo a.C. la parte centrale dell’acropoli di Populonia è oggetto di una profonda trasformazione, con la costruzione di un’ampia area sacra. Un complesso santuariale imponente, le Logge, è organizzato scenograficamente su terrazze sovrapposte, alla cui sommità si trova un loggiato, affacciato sul golfo di Baratti e sulla costa tirrenica. A questo complesso appartiene il mosaico pavimentale con scena di naufragio ora al Museo.
Tutta l’area sacra venne abbandonata già durante la prima metà del I secolo a.C., e, alla fine del I secolo a.C., il geografo greco Strabone visita l’acropoli di Populonia e ne parla come di un piccolo centro quasi del tutto abbandonato a eccezione dei templi e di poche costruzioni, molto piú vivaci appaiono il porto e le campagne dove ancora fumano i pochi forni per il ferro ancora attivi. Il percorso si chiude con l’illustrazione del paesaggio d’età medievale, suggerendo di continuare la visita al Museo del Parco archeominerario di San Silvestro. Il Museo è dedicato ad Antonio Minto, il principale fautore delle scoperte compiute nel territorio populoniese.
Autori: Andrea Semplici, Silvia Guideri e Giandomenico De Tommaso.
Fonte: http://www.archeo.it, ottobre 2007