Forse si chiamava Amina. O forse Tyrseta, chissà. Di sicuro, oggi è Pontecagnano, e sta sul mare subito a Sud di Salerno.
A chi sta nella perenne processione di auto che l’attraversa, dà l’idea di un’anonima estensione della città, agglomerato senza particolari attrattive eccetto il mare, che in una dolcissima curva tocca a Nord gli alti profili della costa amalfitana.
Pontecagnano, però, vanta un passato eccezionale, come ben sanno gli archeologi da quasi mezzo secolo: da quando, cioè, Bruno D’Agostino la scoprì. Da allora, era il 1962, dal suo territorio sono emerse 9.000 tombe: forse la più grande necropoli etrusca d’Europa.
«La Campania», mi spiega Luca Cerchiai, docente di Etruscologia e archeologia dell’Italia all’Università di Salerno, «fu più etrusca che greca. Greche erano Cuma, Paestum, Velia. Ma gli Etruschi controllavano l’entroterra oltre alla costa salernitana. Si può dire che in fondo anche Capua e Pompei fossero etrusche, come altri insediamenti indigeni che accettarono d’essere etruschizzati». Pontecagnano è il limite meridionale dell’espansione etrusca. Nata come insediamento villanoviano, copre un arco di tempo che dall’inizio del IX secolo avanti Cristo arriva alla conquista romana, avvenuta nel III secolo. Da qui, gli Etruschi non furono mai sloggiati dai Greci.
E, fino alla fondazione di Posidonia-Paestum, fu questo, con quello «fratello» di Fratte, alla periferia di Salerno, il principale centro urbano della Campania meridionale. Torniamo al nome. «In un’iscrizione in lingua etrusca scavata in uno dei santuari e conservata oggi al Museo archeologico di Pontecagnano», dice Cerchiai, «si legge, sia pure in maniera frammentaria, il nome di Amina. Lo si dovrebbe poter collegare a quello di un popolo mitologico, gli Aminei, dediti alla coltivazione della vite aminea, appunto, e insediati sulle colline. Nel museo di Paestum c’è un disco d’argento, dono votivo degli Aminei. E di loro resta un ricordo anche a Napoli: ai Colli Aminei, appunto. L’ipotesi degli studiosi è che gli Aminei abitassero il territorio picentino, cioè i dintorni di Pontecagnano. Amina sarebbe dunque il nome del territorio, non quello della città. La quale, secondo un’altra ipotesi che si appoggia allo storico greco del IV secolo Filisto, potrebbe invece chiamarsi Tyrseta: denominazione immediatamente riferibile allo stesso nome greco degli Etruschi, Tyrrenoi o Tyrsenoi».
La geografia attuale è assai mutata, ma in epoca etrusca sulla costa c’era un vasto bacino lacustre originato dalla foce del Sele. Offriva un approdo sicuro e le risorse della palude. Molte città del tempo sorgevano su siti simili.
«Cuma», ricorda Cerchiai, «dominava il lago costiero di Licola, e forse Pompei si affacciava su un bacino formato alla foce del Sarno. Non è un caso, del resto, che i Greci scegliessero d’impiantarsi sulla sponda sinistra del Sele, in un ambiente analogo, e che si preoccupassero di marcare il territorio innalzando alla foce del fiume il santuario di Hera».
Al Sele c’era dunque il confine tra le due comunità. Da qualche anno a Pontecagnano c’è il nuovo Museo Archeologico Nazionale, di cui Cerchiai è stato direttore, realizzato in un edificio concepito proprio per ospitarlo e ordinato in modo da riuscire a catturare anche l’attenzione dei profani. «Più che far vedere oggetti» , dice efficacemente Cerchiai, «il museo racconta storie» .
Fra queste, molto emozionante è quella della Città dei Prìncipi, secoli VIII-VII, quando Pontecagnano era un grande centro («non inferiore a siti famosi come Cerveteri o Tarquinia», precisa Cerchiai) di scambi tirrenici fra Etruschi, Fenici, Greci e altre civiltà.
Si vedono reperti da tombe dai corredi ricchissimi di oggetti preziosi provenienti da tutto il Mediterraneo. Al centro dello spazio è ricostruita una delle tombe; ai lati, nelle vetrine, i reperti. Altro esempio, la ricostruzione della bottega di un bronzista: tra i pezzi più belli, una maschera equina in bronzo con figure sbalzate, unica nel suo genere, che ricopriva integralmente la testa di un cavallo e che forse fu prodotta da un artigiano orientale in qualche città etrusca. È pensabile che fosse parte della bardatura di uno dei cavalli che trainarono il carro funebre di un ‘‘principe’’. Tra i pezzi forti, ecco poi l’iscrizione più antica della Campania (terzo quarto del VII secolo a. C.), realizzata per la sepoltura di un bambino, in occasione della quale i suoi genitori fecero offerte alla divinità.
Il museo merita assolutamente una visita. Come del resto l’area dell’antica città, completamente preservata. Si trova a Nord, tra la statale e l’autostrada, ed è un parco archeologico.
Ciò che stupisce è il fatto che Pontecagnano pare alquanto indifferente a questo suo sensazionale patrimonio. Non dico che uno si aspetterebbe di riconoscere nella parlata locale la persistenza di aspirate simili a quelle della pronuncia toscana, ma almeno, che so?, d’imbattersi in uno stabilimento balneare denominato ‘‘Lido degli Etruschi’’. Invece, nulla. La memoria del passato stenta a imporsi. Forse perché, alla fine, hanno vinto Romani, che sul sito della città etrusca dedussero la colonia di Picentia, portandovi dall’Adriatico una tribù barbara. E forse non è senza significato il fatto che Picentia restò una città ribelle: tradì Roma schierandosi con Annibale, lo rifece prendendo le parti di Mario nella guerra civile da questi combattuta contro Silla. E per due volte fu messa a ferro e fuoco.
Salerno nacque proprio allora: per tenerla sotto controllo…
A chi sta nella perenne processione di auto che l’attraversa, dà l’idea di un’anonima estensione della città, agglomerato senza particolari attrattive eccetto il mare, che in una dolcissima curva tocca a Nord gli alti profili della costa amalfitana.
Pontecagnano, però, vanta un passato eccezionale, come ben sanno gli archeologi da quasi mezzo secolo: da quando, cioè, Bruno D’Agostino la scoprì. Da allora, era il 1962, dal suo territorio sono emerse 9.000 tombe: forse la più grande necropoli etrusca d’Europa.
«La Campania», mi spiega Luca Cerchiai, docente di Etruscologia e archeologia dell’Italia all’Università di Salerno, «fu più etrusca che greca. Greche erano Cuma, Paestum, Velia. Ma gli Etruschi controllavano l’entroterra oltre alla costa salernitana. Si può dire che in fondo anche Capua e Pompei fossero etrusche, come altri insediamenti indigeni che accettarono d’essere etruschizzati». Pontecagnano è il limite meridionale dell’espansione etrusca. Nata come insediamento villanoviano, copre un arco di tempo che dall’inizio del IX secolo avanti Cristo arriva alla conquista romana, avvenuta nel III secolo. Da qui, gli Etruschi non furono mai sloggiati dai Greci.
E, fino alla fondazione di Posidonia-Paestum, fu questo, con quello «fratello» di Fratte, alla periferia di Salerno, il principale centro urbano della Campania meridionale. Torniamo al nome. «In un’iscrizione in lingua etrusca scavata in uno dei santuari e conservata oggi al Museo archeologico di Pontecagnano», dice Cerchiai, «si legge, sia pure in maniera frammentaria, il nome di Amina. Lo si dovrebbe poter collegare a quello di un popolo mitologico, gli Aminei, dediti alla coltivazione della vite aminea, appunto, e insediati sulle colline. Nel museo di Paestum c’è un disco d’argento, dono votivo degli Aminei. E di loro resta un ricordo anche a Napoli: ai Colli Aminei, appunto. L’ipotesi degli studiosi è che gli Aminei abitassero il territorio picentino, cioè i dintorni di Pontecagnano. Amina sarebbe dunque il nome del territorio, non quello della città. La quale, secondo un’altra ipotesi che si appoggia allo storico greco del IV secolo Filisto, potrebbe invece chiamarsi Tyrseta: denominazione immediatamente riferibile allo stesso nome greco degli Etruschi, Tyrrenoi o Tyrsenoi».
La geografia attuale è assai mutata, ma in epoca etrusca sulla costa c’era un vasto bacino lacustre originato dalla foce del Sele. Offriva un approdo sicuro e le risorse della palude. Molte città del tempo sorgevano su siti simili.
«Cuma», ricorda Cerchiai, «dominava il lago costiero di Licola, e forse Pompei si affacciava su un bacino formato alla foce del Sarno. Non è un caso, del resto, che i Greci scegliessero d’impiantarsi sulla sponda sinistra del Sele, in un ambiente analogo, e che si preoccupassero di marcare il territorio innalzando alla foce del fiume il santuario di Hera».
Al Sele c’era dunque il confine tra le due comunità. Da qualche anno a Pontecagnano c’è il nuovo Museo Archeologico Nazionale, di cui Cerchiai è stato direttore, realizzato in un edificio concepito proprio per ospitarlo e ordinato in modo da riuscire a catturare anche l’attenzione dei profani. «Più che far vedere oggetti» , dice efficacemente Cerchiai, «il museo racconta storie» .
Fra queste, molto emozionante è quella della Città dei Prìncipi, secoli VIII-VII, quando Pontecagnano era un grande centro («non inferiore a siti famosi come Cerveteri o Tarquinia», precisa Cerchiai) di scambi tirrenici fra Etruschi, Fenici, Greci e altre civiltà.
Si vedono reperti da tombe dai corredi ricchissimi di oggetti preziosi provenienti da tutto il Mediterraneo. Al centro dello spazio è ricostruita una delle tombe; ai lati, nelle vetrine, i reperti. Altro esempio, la ricostruzione della bottega di un bronzista: tra i pezzi più belli, una maschera equina in bronzo con figure sbalzate, unica nel suo genere, che ricopriva integralmente la testa di un cavallo e che forse fu prodotta da un artigiano orientale in qualche città etrusca. È pensabile che fosse parte della bardatura di uno dei cavalli che trainarono il carro funebre di un ‘‘principe’’. Tra i pezzi forti, ecco poi l’iscrizione più antica della Campania (terzo quarto del VII secolo a. C.), realizzata per la sepoltura di un bambino, in occasione della quale i suoi genitori fecero offerte alla divinità.
Il museo merita assolutamente una visita. Come del resto l’area dell’antica città, completamente preservata. Si trova a Nord, tra la statale e l’autostrada, ed è un parco archeologico.
Ciò che stupisce è il fatto che Pontecagnano pare alquanto indifferente a questo suo sensazionale patrimonio. Non dico che uno si aspetterebbe di riconoscere nella parlata locale la persistenza di aspirate simili a quelle della pronuncia toscana, ma almeno, che so?, d’imbattersi in uno stabilimento balneare denominato ‘‘Lido degli Etruschi’’. Invece, nulla. La memoria del passato stenta a imporsi. Forse perché, alla fine, hanno vinto Romani, che sul sito della città etrusca dedussero la colonia di Picentia, portandovi dall’Adriatico una tribù barbara. E forse non è senza significato il fatto che Picentia restò una città ribelle: tradì Roma schierandosi con Annibale, lo rifece prendendo le parti di Mario nella guerra civile da questi combattuta contro Silla. E per due volte fu messa a ferro e fuoco.
Salerno nacque proprio allora: per tenerla sotto controllo…
Autore: Francesco Durante
Fonte: Corriere.it, 19/05/2011