Ercolano, Pompei: scoperte grandiose, ma che hanno segnato un punto di non ritorno nel nostro rapporto con la città. Che da allora, Roma in testa, è diventata oggetto di una idolatria che la sta uccidendo.
Non hanno soltanto riportato alla luce incredibili tesori e fornito un determinante contributo alla conoscenza dell’Antichità, gli scavi di Pompei ed Ercolano, hanno avuto modo anche qualche conseguenza negativa. Innanzitutto per la salute dei resti stessi delle due città, che dal grembo di ceneri e lapilli che li preservava si sono visti trascinare all’aria aperta, grimata di minacce. Danni non meno gravi, tuttavia, gli scavi li hanno prodotti altrove. Man mano che riemergevano le strade, i templi, le domus si materializzava l’immagine di una città antica cristallizzata nel suo aspetto originario, intatta da trasformazioni e aggiunte di epoca post-classica. Prendeva forma nell’immaginario un’idea di antico “puro” che le generazioni precedenti non avevano potuto nemmeno concepire, abituare a vedere l’antico immerso nella realtà contemporanea. Tutt’al più gli antiquaei si dilettavano di produrre ricostruzioni, più o meno fantasiose, dell’aspetto che celebrati edifici classici avevano avuto. Con Pompei cambiava tutto: un’intera città era stata catapultata attraverso i secoli; l’antico, quello vero, non era più il frutto della fantasia degli antiquari e dell’abilità degli incisori, ma era lì, a grandezza naturale, lo si poteva percorrere e calpestare.
L’impressione, in tutta Europa, fu enorme.
Sull’onda dell’entusiasmo, iniziò ad affacciarsi un interrogativo: perchè non replicare altrove il modello offerto da Pompei, perchè non purificare le maggiori testimonianze dell’Antichità, che per la gran parte erano state “imbastardite” dalla pratica del riuso e parzialmente nascoste alla vista dal progressivo innalzamento del terreno?
Il pensiero correva, naturalmente, a Roma: se due centri di secondaria importanza svelavano tali tesori, cosa ci si doveva aspettare di trovare nella capitale dell’Impero? Anche sotto questo punto di vista, la cesura coi secoli precedenti fu netta: i papi avevano promosso restauri e isolamenti di monumenti antichi, e non mancavano certo gli scavi; ma nessuno si sarebbe sognato di rivoltare l’Urbe come un calzino, né di erigere uno steccato tra la prima e la seconda Roma, rinnegando il reimpiego e rimuovendone le tracce (anzi: ancora alla fine del Seicento si poteva proporre di erigere una grande basilica all’interno del Colosseo, secondo un progetto di Carlo Fontana, rimasto poi sulla carta).
Passò qualche decennio e, non appena il Papa perse il potere sulla città, i nuovi e nomentanei padroni – i Francesi – tradussero in atto questi vagheggiamenti: iniziò allora quel processo fatto di scavi, demolizioni, isolamenti che si protrasse per circa un secolo e mezzo, con alterna intensità, e con sfumature ideologiche diverse, particolarmente accentuate nell’ultima fase, quando sotto i colpi del tragicomico piccone del Duce caddero intere porzioni della seconda Roma. Si aprirono così, nel tessuto urbano, tante piccole Pompei, che in qualche caso superavano il prototipo per la maestosità dei resti, e molto spesso non ci riuscivano affatto, offrendo alla vista soltanto un intrico di muretti sbrecciati.
Oggi, terminata la fura demolitrice, i suoi frutti restano sostanzialmente intatti, nonostante la situazione appaia insoddisfacente a molti: rovine grandiose ma morte, da un lato, e resti incomprensibili dall’altro. Con le immancabili recinzioni a marcare la netta separazione tra questi spazi e la città viva, a sottolineare la sconfitta sia dell’archeologia che della società, incapaci di avviare un dialogo. Sublime, in questo senso, il cartello che si eleva sugli scavi adiacenti alle terme di Diocleziano, in pieno centro cittadino: Zona Archeologica Non Gettare Rifiuti.
Eppure le soluzioni ci sarebbero: attuare forme di reimpiego per gli spazi antichi e ricoprire gli scavi, prevedendo, laddove possibile, strutture ipogee per la visita. Niente di avveniristico: già lo proponeva, al tempo dell’occupazione francese, il grandissimo Giuseppe Valadier, consapevole che l’opposizione fra il tessuto urbano e i “buchi” sarebbe stata qualcosa di “incompatibile dentro la città per tutti i rapporti”.
Oggi queste idee cozzano contro l’immobilismo: si supererà, a breve, lo stallo o toccherà aspettare di avere a disposizione una DeLorean truccata per tornare al principio dell’Ottocento e far vincere le proposte di Valadier, in modo da evitarci questo presente assolutamente dispotico, dal punto di vista del nostro rapporto con l’archeologia urbana?
Autore: Fabrizio Federici
Fonte: Artribune, Anno IV, n. 18, marzo-aprile 2014