Il restauro emblematico progettato da Franco Minissi nel 1957 e l’integrità del monumento sono minacciati da un intervento di ripristino multimilionario sostenuto dall’alto commissario Vittorio Sgarbi. Se non si reagisce in tempo potremmo assistere alla scomparsa dell’ennesima testimonianza dell’operosità di Minissi nell’ambito del restauro archeologico.
Una cultura diffusa anche nei livelli di maggiore scolarizzazione, che traspare altresì dagli organi di informazione, induce a considerare il restauro come un momento assai positivo nella vita di un’opera d’arte e si ha l’impressione che i migliori risultati si ottengano con grandi quantità di denaro. Questo è falso!!!
L’esecuzione di un restauro rappresenta una sconfitta degli organi di tutela e della società tutta perché costituisce il conseguente epilogo di una lunga e colpevole omissione di atti, e registra una mancanza di interesse e di passione per i monumenti, che si è costretti a sanare con il restauro, che, nella quasi totalità dei casi, sarebbe altrimenti evitabile.
Forse è meglio ribadirlo: il restauro, anche quello che più si avvicina alla conservazione integrale, è atto traumatico che va prevenuto con opere di manutenzione. Il miglior restauro è sempre quello che può essere evitato, a garanzia dell’integrità del patrimonio culturale che conserverebbe l’aura della sua autenticità con il conseguente risparmio delle risorse economiche della collettività.
Questo preambolo è utile per meglio argomentare il gravissimo pericolo che sta correndo il noto sito archeologico della villa romana del Casale di Piazza Armerina in cui si pretende di eseguire un così detto “restauro” del valore di 25 milioni di euro (a quanto pare 18 + 7 provenienti da finanziamenti di diversa origine).
Dopo la fortuita scoperta e i successivi scavi, una prima copertura veniva realizzata nel 1942, nel Triclinium, sopra i mosaici con le Fatiche di Ercole, su progetto dell’architetto Piero Gazzola, a quell’epoca Soprintendente ai monumenti della Sicilia orientale. Pilastri di mattoni sostenevano una struttura con capriate lignee, tavolato e coppi alla siciliana. Ma quel primo esempio di copertura non convince, è troppo pesante e oppressivo dei resti archeologici. Soltanto nel 1957, dopo avere portato il tema all’attenzione del Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti, il Ministero della Pubblica Istruzione dava incarico all’architetto Franco Minissi di progettare una protezione con tettoie trasparenti e leggere. Al progetto delle coperture della villa del Casale partecipava attivamente Cesare Brandi storico dell’arte e teorico del restauro di fama internazionale, in quel tempo direttore dell’Istituto Centrale per il Restauro. In un saggio sulla conservazione delle architetture allo stato di rudere pubblicato sul Bollettino dell’ICR nel 1956, Brandi trattava ampiamente il tema della villa del Casale esponendo la possibile tipologia delle proposte di copertura dei resti della villa. Quella tradizionale pesante e invasiva, del genere di quella realizzata da Gazzola (in pratica molto simile al progetto che si vorrebbe realizzare oggi), quella in forma di grande cupola in cemento armato, conservativa per i ruderi ma non per l’ambiente (molto simile ad un altro progetto proposto nel 2004) e, infine, quella leggera e trasparente che riteneva la più idonea.
Grazie alla razionalizzazione del montaggio dei vari componenti, essenzialmente esili strutture metalliche ed elementi modulari in vetro o in laminato plastico trasparente, nel 1958 (in meno di un anno), l’opera protettiva per la conservazione della villa romana del Casale veniva completata. Con un impegno economico minimale, dunque, guidato da un progetto museografico di grande ingegno e originalità, si è resa possibile la salvaguardia del complesso architettonico e la sua fruizione, con oltre duemila metri quadrati di mosaici coperti. Ma questi sono solo gli aspetti più pratici di quel progetto che però nella sua essenza contiene la massima concentrazione delle speculazioni intellettuali intorno al restauro dei monumenti elaborate nella prima metà del Novecento e, generalmente, valide fino ad oggi. L’attività progettuale di Minissi, che si svolge dopo la seconda guerra mondiale, si collega al dibattito sugli obiettivi del restauro che insieme allo stesso Brandi vede protagonisti, tra gli altri, Renato Bonelli, Guglielmo De Angelis D’Ossat e Roberto Pane, che disquisiscono intorno alla sua codificazione. Il restauro è sempre da intendere con finalità conservativa ma nella feconda dialettica tra processo critico e atto creativo, nella prospettiva del raggiungimento della reintegrazione dell’immagine mutila, ove se ne presentasse l’assoluta necessità. L’opera di Minissi, svolta a servizio della conservazione del patrimonio archeologico, si è fatta interprete di questo dibattito ed ha tradotto le istanze teoriche in concrete realizzazioni che possono considerarsi, per ciò che riguarda l’accostamento di materiali moderni a resti archeologici, il manifesto del restauro del XX secolo. Manifesto che rischia di essere definitivamente cancellato.
Col progetto di Minissi si è ottenuto un apprezzabile equilibrio tra la necessità protettiva del sito, costituita dall’impalpabile struttura trasparente, ed il rispetto dell’atmosfera magica del rudere archeologico a cui, ma solo graficamente, si conferisce una ideale e non obbligata dimensione spaziale ormai definitivamente, dico definitivamente, perduta e mai più riconquistabile dalle supposizioni dei ripristinatori.
Proprio la Sicilia ha rappresentato il laboratorio per la sperimentazione di quelle nuove vie del restauro e proprio Minissi è stato autore di tanti progetti come quello delle mura urbiche greche di Capo Soprano realizzate in mattoni di argilla cruda, dove si adottava un rivestimento con lastre di vetro (1952); come quello della copertura del teatro di Eraclea Minoa con elementi sagomati in perspex (1962); come quello della chiesetta di epoca normanna di San Nicolò Regale a Mazara del Vallo (1963) in cui si ricostruiva la copertura non più esistente. Questa era composta da elementi metallici e piccole lastre trasparenti di perspex che emulavano l’apparecchiatura in conci di arenaria costituenti archi, volte e cupola e consentivano alla luce del giorno di inondare l’interno (di una bellezza strepitosa).
Forse pochi ricordano che le soluzioni restaurative appena citate non esistono più perché recentemente distrutte da ulteriori e dissennati restauri. Ma è mai possibile? Si è possibile. Ancora una volta questi esempi ci mostrano monumenti in cui non si è mai attuato il minimo piano di manutenzione e dove, per inerzia, si è atteso il lento disfacimento della materia, sia di quella introdotta con il restauro che di quella storica che si voleva proteggere. In verità resta solo un’altro esempio di sito archeologico con copertura trasparente progettata da Minissi, ma per motivi comprensibili, preferisco non rivelarne l’ubicazione per evitare lo zelo di qualche “benintenzionato” portatore di favolosi finanziamenti.
Per tornare alla villa del Casale si può ancora notare che la soluzione della sua protezione ha trovato sempre entusiastici consensi e che quel progetto, che superficialmente si potrebbe definire datato, è ancora considerato come uno tra i più alti esempi del restauro di tutti i tempi.
In cinquanta anni la copertura della villa ha svolto egregiamente la sua funzione, praticamente senza mai ricevere opere di manutenzione, sopportando pure atti vandalici, tentativi di incendio, e addirittura un alluvione. L’alluvione verificatosi nel 1991 causava l’inondazione della villa e provocava il ricoprimento dei mosaici con una spessa coltre di fango. Questa poteva essere una buona occasione per mettere a punto un progetto serio di manutenzione e valorizzazione del complesso e di soluzione dei pericoli idro-geologici. Ma niente!!! Si sgombrano semplicemente fango e detriti senza avviare studi sulla conservazione dei mosaici. Gli unici interventi hanno sempre peggiorato la situazione climatica con la eliminazione delle soluzioni per favorire la circolazione dell’aria previste dal progetto originario della copertura.
Neanche l’inclusione della villa, nel 1997, nell’elenco del patrimonio dell’umanità da parte dell’UNESCO ha fatto reagire i responsabili per indurli a promuovere minime azioni di tutela e opere di miglioramento dell’accoglienza (pensate 500 mila visitatori all’anno e neanche un gabinetto) o per scongiurare le azioni di vandali e ladri.
Per studiare la possibilità di combattere vandalismi e furti (l’ultimo, di due teste marmoree, è stato denunciato il 2 ottobre 2006) nel 2003 la Regione Siciliana aveva nominato Alto Commissario della villa l’ex generale dei carabinieri Bruno Conforti (una volta tanto la persona giusta al posto giusto) ma poi ci ha ripensato e ha conferito quella carica al dottore Vittorio Sgarbi, perché, a quanto pare, si è meritato quei galloni di difensore della villa dopo un coraggioso blitz effettuato alle quattro del mattino per cogliere, forse, eventuali delinquenti sul fatto. Da quel momento si è cominciato a discutere di possibili progetti, ma anziché di lotta alla criminalità i progetti, d’improvviso, sono diventati di restauro (ma che nesso c’era ?). Così ha iniziato a circolare la notizia di un favoloso finanziamento per realizzare una ciclopica cupola a protezione del sito archeologico.
Il timore di una profonda alterazione dei luoghi ha fatto insorgere le proteste ed io stesso ho raccolto varie firme in campo nazionale per sostenere l’iniziativa del prof. Nigrelli, dell’Università di Catania, che invocava giusti interventi per garantire la permanenza dell’opera di Minissi.
Dopo qualche tempo il commissario Sgarbi, che prima manifestava simpatie per una cupola di ben 120 metri di diametro e 30 di altezza (ora mi rendo conto che forse era solo uno specchietto per le allodole), rompe gli indugi e dichiara che il suo nuovo paladino è l’architetto Guido Meli, Direttore del Centro regionale del restauro, che sta elaborando un progetto conservativo (sic). Sembrava una battaglia vinta. Il restauro emblematico di Minissi poteva continuare a resistere con gli opportuni interventi di adeguamento. Una dichiarazione dello stesso Meli rilasciata ad un quotidiano confermava le sue intenzioni conservative: «Tutti i sostegni tubolari della copertura – dice Meli – sono oramai arrugginiti, vanno cambiati, un lavoro difficile, attraverso il quale dobbiamo ottenere un’adeguata aerazione ed una maggiore funzionalità dell’attuale sistema» (Giornale di Sicilia 17/02/04). Forse avrebbe dovuto allarmare l’esagerato impegno di spesa che si andava delineando, non sempre compatibile con chi vuole sinceramente conservare l’esistente. Io però ero rassicurato dal ruolo che riveste il Centro diretto dall’architetto Meli, che, pensate, si occupa della elaborazione, per tutto il territorio regionale, della “carta del rischio” che rappresenta il mezzo per evitare i restauri da svolgere in emergenza, perché valutando i rischi si può agire con opere di prevenzione. Sapevo pure che insieme al teatro di Taormina, uno dei progetti pilota di Meli era proprio applicato alla valutazione dei rischi della villa del Casale e questo mi tranquillizzava ulteriormente, anche perché non traspariva alcun immediato pericolo. Ma d’improvviso, forse per qualche malefico influsso, i guai sono arrivati tutti insieme.
Devo ringraziare il prof. Dezzi Bardeschi del Politecnico di Milano e il prof. Guerrera dell’Università di Palermo, che mi hanno informato, negli scorsi giorni, di un progetto definitivo di cui non avevo notizia. Ma l’impulso a scrivere queste righe, dopo aver assunto ogni possibile elemento, mi è venuto dopo la lettura di un articolo del commissario Sgarbi (che dispensa ingiurie a chi si è permesso di manifestare dubbi sulla sua iniziativa) pubblicato lo scorso 23 ottobre da “il Giornale” dal quale si comprende che dietro quel progetto di svariati milioni di euro non c’è alcun programma culturale, se non quello di spendere subito quei denari che altrimenti andrebbero perduti.
A questo punto rivolgo al commissario Sgarbi l’appello di non permettere che si distrugga, per i motivi che ho esposto, l’opera di Minissi, di essenziale importanza per l’evoluzione delle teorie del restauro. Sarebbe come, spero che lui capisca, togliere le opere di restauro di Raffaele Stern dall’arco di Tito.
Vorrei chiedere pure al commissario Sgarbi se ha mai valutato quanto potrebbe essere fallimentare eliminare la struttura di copertura esistente, che di fatto ha svolto egregiamente la sua funzione per cinquanta anni, senza mai richiedere opere di manutenzione e tuttora efficiente, con un’altra costosissima che richiederebbe indifferibili e onerosissimi interventi continui. Forse l’alto commissario non è stato informato di quanto sia gravoso mantenere in stato di esercizio tutto il legno che dovrebbe mettersi in opera, e cosa richiederebbe tenere in ordine quei circa trentacinquemila metri quadrati di nuovo intonaco che si vuole introdurre.
E poi ancora chiedo al commissario di riflettere se vale la pena di eliminare l’elegante soluzione di copertura esistente nella villa per costruire quei pesanti ed ingombranti casoni di totale invenzione che, più che altro, ricordano un surrogato di edilizia rurale dove recarsi per acquistare uova fresche.
Spero che il buon commissario Sgarbi capisca che alla fine tutti quei quattrini, per i quali rivendica riconoscenza dai siciliani, se non impiegati oculatamente, saranno solo la più grande iattura che poteva capitare a quel luogo magico e incantevole.
Io sono sicuro che con poca spesa si dovrebbe rimettere la copertura progettata da Minissi nella condizione di essere attualizzata. Parte del denaro restante si dovrebbe impiegare per le opere di conservazione dei mosaici. Il resto del cospicuo finanziamento sarebbe da destinare alle infrastrutture ricettive. Altra opera assai meritoria sarebbe pure quella di istituire ed attrezzare un laboratorio di restauro permanente, dove ospitare per tirocini e poi impiegare i laureati, architetti e restauratori dei corsi di conservazione dell’Università.
Spero che presto l’alto commissario dott. Vittorio Sgarbi, noto saggista e conduttore televisivo, apprezzato per l’alto senso di equilibrio e la moderazione, receda dai suoi propositi e si renda conto che il destino della villa del Casale di Piazza Armerina è di importanza capitale per la cultura universale e che non si può restare indifferenti di fronte ad un progetto, privo di ogni minimo approfondimento, che elimini l’integrità e l’autenticità del monumento.
Aspetto fiducioso che un suo ripensamento ci liberi dall’attuale imbarazzo e dall’angoscia di sapere quel prezioso bene culturale in pericolo. Mi auguro che Sgarbi ci ripensi almeno come tributo alla memoria di Cesare Brandi di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita.
Invito infine coloro che hanno letto queste mie note e considerano la conservazione del patrimonio culturale un interesse collettivo, a sottoscrivere l’appello che segue indirizzato alle autorità perché si possa salvare, nella sua attuale composizione (resti archeologici e opere di protezione e fruizione progettate da Minissi), il complesso monumentale della villa del Casale.
Per sottoscrivere l’appello, andare a:
http://www.unipa.it/monumentodocumento/
Franco Tomaselli (frantom@unipa.it)
presidente dell’associazione culturale “Monumento Documento” onlus; professore ordinario di Restauro nella Facoltà di Architettura di Palermo; direttore del Master biennale di II livello in Restauro dei Monumenti; coordinatore del corso di Laurea Magistrale in Conservazione e Restauro dei Beni Architettonici ed Ambientali della Facoltà di Architettura di Palermo.
Autore: Franco Tomaselli
Cronologia: Arch. Romana