L’usanza di porre richiami sessuali sulle mura degli edifici, ereditata almeno dall’età romana, proseguì nel Medioevo, anche sugli edifici sacri, con un’insistenza che a qualcuno, oggi, potrebbe apparire persino blasfema. Tali segni erano usati anche in altre parti del mondo come talismani contro le influenze maligne, specialmente contro stregonerie e malocchi. I simboli di fertilità erano essenziali perché richiamavano le basi della riproduzione del gruppo sociale e venivano raffigurati per proteggere da incantesimi di ogni tipo: la protezione avvolgeva i luoghi, coloro che li frequentavano, ma anche i passanti che avessero gettato uno sguardo fiducioso verso di essi.
Immagini di sesso si ritrovano, qua e là, nell’arte medievale. Alcune rappresentazioni falliche e del sesso femminile sono pas¬sate indenni attraverso i fulmini di San Bernardo, la Controriforma, gli “abbellimenti” barocchi e i pudori del secolo scorso. Quelle che rimangono rendono la testimonianza di un culto delle forze generatrici e del valore apotropaico dato a queste rappresentazioni.
A Pavia, sulla facciata principale della Basilica di San Michele, monsignor Gianani ravvisava le immagini dell’impudica Tamar e della casta Susanna in due donne, una dall’atteggiamento sconcio e l’altra in posa pudica. Figure ormai cancellate o quasi, all’esterno. In realtà, l’immagine di Tamar, al centro fra due palme da dattero (Tamar, appunto, secondo il nome semitico di tale albero), non aveva nulla di osceno, ma anzi era vestita in modo sfarzoso.
Sempre a Pavia, a San Lanfranco, vediamo sulla facciata tre formelle di terracotta che raffigurano due organi sessuali femminili e uno maschile. Per vederle distintamente, occorre un’illuminazione adatta, con le ombre pomeridiane generate dai raggi del sole rasenti alla facciata, e un binocolo o un teleobiettivo. Meno crude in generale, per i nostri occhi, ma non meno profane, sono diverse scene di vita popolare, legate ai mestieri, ai mesi, alle stagioni.
Venne la grande fioritura della terracotta. Le fornaci producevano elementi stampati con procedimenti di tipo industriale, in grande quantità e in gran varietà, tanto da lasciarci ancor oggi stupiti per la raffinata fattura degli edifici, degli archi e delle loro decorazioni. Non sappiamo quale fornace abbia prodotto, tra la fine del sec. XIV e il sec. XV, le formelle con la damina pettinata “alla francese”, il cavaliere e il paggio, il putto che coglie i grappoli d’uva, che ci richiamano pagine di letteratura erotica cavalleresca e d’amor cortese.
Le troviamo a Cecima, nel ricco portale sovrastato dalla data 1479, incorniciate da trine e decorate con borchie di gusto gotico, cordonature, foglie e fiori.
Ne ritroviamo alcune anche a Bobbio.
Figure che ricordano quelle dei Tarocchi, richiamano un Medioevo intrigante, fatto di tornei, di vita brillante e di tresche. Immagini meno crude di quelle dell’arte romanica, trasudano altri ammiccamenti e allusioni erotiche. Le damine indossavano allora i cappelli “alla francese”, dalle alte corna coniche, e tuniche avvolgenti, lunghe fino ai piedi ma fatte di veli e tessuti trasparenti, con ampi spacchi laterali (le “finestre del diavolo”) che, al di sotto delle maniche, non nascondevano praticamente nulla dei loro corpi aggraziati. Papi e predicatori tuonavano contro queste mode.
Le sirene bifide o bicaudate (a due code), simboli di femminilità in varie accezioni, legate anche a tradizioni simboliche ermetiche, costellano i capitelli di varie chiese, sino a divenire una specie di marchio di fabbrica dell’epoca. La sirena bicaudata ha un significato ancora per molti versi avvolto nel mistero. Retaggio di antichi culti legati alla terra, richiama la forza rigeneratrice di Freia, che nella mitologia nordica è dea della magia e dell’amore, della fecondità e della lussuria, protettrice delle partorienti.
Tacito nel suo libro Germania ricorda come alcune tribù della Germania settentrionale, tra cui i Longobardi e gli Angli, venerassero la madre-terra chiamata Nerthus (forse madre di Freia?), di cui racconta con occhio distaccato ma attento dello storico l’esoterico culto. Come racconta Paolo Diacono nella Storia dei Longobardi, i Longobardi veneravano Frea (Freia), moglie di Wotan (Odino).
Le sirene a due code sono immagini ricorrenti nell’arte romanica, a Pavia, come a Como e in diversi altri luoghi, in tutta l’Europa. Ad esempio a Pavia, sulla facciata principale della Basilica di San Michele, così come in altre chiese romaniche (nella cripta di San Teodoro, o nella distrutta Basilica di San Giovanni in borgo), ricorrono numerose sirene, ma si trovano anche tritoni barbuti ed ermafroditi. Figure ormai cancellate o quasi, all’esterno, dall’erosione subìta dalla pietra arenaria. Oltre alla doppia natura donna-pesce, la doppia coda contribuisce a sottolinearne l’ambiguità e ad apparentarle al segno astrologico dei Pesci. Esse sono simbolo di fertilità e di eterna generazione, ma la loro forma le rende simili anche alla lettera omega dell’alfabeto greco (l’ultima lettera, che può rappresentare la fine di tutte le cose): un’ulteriore ambiguità, il principio e la fine riassunti nello stesso segno.
Nella tradizione medievale la sirena si identifica con Melusina, una donna che era normale per tutta la settimana e si trasformava in sirena soltanto il sabato. Allora, con la coda di pesce, non poteva mostrarsi al suo sposo, il principe di Lusignano. Quando, per troppo amore, si lasciò convincere a trascorrere col marito una delle “notti proibite”, egli, spinto dalla curiosità, scoprì il segreto delle code. Da allora Melusina è condannata a ritornare per sempre nel suo primo elemento, l’acqua. Nei miti di ogni parte del mondo compaiono donne incantatrici con code di pesce, che escono dalle acque per sedurre i loro amanti. I pesci e i serpenti, animali a sangue freddo e dalle squame sfuggenti, appaiono nelle tradizioni come simboli della seduzione, distinta dall’amore vero e proprio. La sirena rappresenta il rischio e l’avventura, una delle componenti per l’uomo dell’incontro con la donna e dell’innamoramento. Ricordiamo le sirene dell’Ulisse omerico, ma anche le Mamy Wata (Signore dell’acqua) che s’incontrano nelle tradizioni africane, in diversi Paesi e lungo diversi fiumi (ma soprattutto sul lungo corso del Niger) e che approda col nome di Yemanjá in Brasile, dove si confonde col culto della Madonna. Anche la tradizione di Pavia ha la sua “Signora dell’acqua”: si veda la leggenda legata alla Madonna della Stella, venerata in Borgo Ticino.
Il grande medico-alchimista Paracelso, ai primi del Cinquecento, affermava che le Melusine sono donne-serpente che abitano nel sangue, e possono così ritrovare all’interno del corpo umano un ambiente liquido simile a quello marino, da cui provengono. Esse rappresentano, nell’Alchimia, l’anima del Mercurio. Per gli alchimisti la sirena a due code è una divinità nata dal mare profondo, e dal suo seno sgorgano latte e sangue, che – mediante la cottura – si trasformeranno in argento e oro.
Rimangono ancora ben visibili, al lato d’un portale della Basilica di San Michele, le donnine a gambe aperte, in una posizione simile a quella delle sirene bicaudate, ma con il sesso bene in mostra, e richiamano alla mente le immagini propiziatorie di fertilità della tradizione celtica, che erano collocate sulla porta d’ingresso di antiche chiese irlandesi, gallesi e scozzesi, chiamate Sheela-na-Gig (termine popolare che significa: “Giulia la prostituta”). Le figurine femminili senza code, ma a gambe aperte e col sesso esagerato, esposto in evidenza, dovevano probabilmente proteggere dal malocchio e da altre forze maligne.
Fonte: http://www.liutprand.it, 31 luglio 2014