Si narrava che Tiresia, l’indovino tebano, fosse diventato cieco dopo avere visto Atena nuda, intenta al bagno. Più sfortunato ancora Atteone, il formidabile cacciatore, che per avere spiato le abluzioni di Artemide fu trasformato in cinghiale e sbranato dai suoi cani. Nulla di tutto ciò toccò invece a Prassitele, lo scultore ateniese, che pure aveva osato l’inosabile: spogliare lui stesso Afrodite, creando il primo nudo femminile integrale nella statuaria occidentale. Al contrario, l’ardimento gli valse fama eterna e il suo capolavoro divenne uno dei più ammirati e copiati di tutti i tempi, meta di pellegrinaggio e oggetto di infatuazione collettiva.
Però in qualche modo il contrappasso ha colpito anche Prassitele, la cui arte oggi ci è nota, appunto, quasi esclusivamente attraverso le copie. Come una postuma vendetta divina, che ne ha fatto un fantasma evanescente sempre lesto a sfuggire ogniqualvolta ci sembra di averlo afferrato. E’ proprio nell’intento di «fermarlo», per quanto possibile, mettendo insieme le tracce e gli indizi, che il museo del Louvre, detentore di un notevole gruppo di marmi a lui riconducibili, ha varato la mostra «Praxitèle», con prestiti dalle principali collezioni internazionali, aperta al pubblico dal 23 marzo al 18 giugno. Alain Pasquier e Jean-Luc Martinez, i due curatori, fanno il punto sulla questione, isolando i rarissimi originali certi, confrontando le numerose repliche con le riproduzioni su monete e con le descrizioni antiche in modo da individuare le più attendibili, inseguendo le influenze che i modelli del maestro hanno avuto nei secoli. Una vera e propria «personale», che nel caso di un artista antico rappresenta anche una sfida destinata a fare epoca, come i due isolati precedenti di rassegne monografiche similari, quella del 1990 a Francoforte su Policleto e quella del ’96 a Roma su Lisippo.
Dell’uomo Prassitele non conosciamo molto. Sappiamo che visse a Atene tra il 400 e il 330 a.C., che era figlio d’arte (scultore suo padre Cefisodoto, scultori i figli Cefisodoto II e Timarco), che ebbe come modella e amante l’etera Frine, con cui intrecciò torride storie. Al contrario di molti colleghi, preferiva al bronzo il marmo, che si procurava nell’isola di Paro, il più candido e pregiato. Quando la statua era terminata, la affidava al pittore Nicia perché stendesse una mano di vernice trasparente sulle carni nude, rifinendo a colore le labbra, gli occhi, i capelli, i drappeggi. Ma di tutto ciò possiamo a malapena farci un’idea, oggi.
La dea dell’amore, appena uscita dal bagno sacro (o forse in procinto di entrarvi), attende i suoi fedeli nell’Hall Napoléon, dove la mostra è allestita. E’ l’Afrodite detta di Cnido, perché furono gli abitanti della città greca sulla costa dell’Asia Minore a comperarla dall’artista intorno al 360 a.C.
Due le versioni accostate, copie romane di epoca imperiale: la Venere Colonna e la Venere del Belvedere, la migliore e più attendibile fra le oltre 50 che ci sono pervenute. Nonostante certe esibizioni deprimenti di nudità a cui siamo assuefatti, o forse proprio per questo, è una visione emozionante. Sulla superficie marmorea la luce scivola esaltando la morbidezza del modellato – così distante dalla netta definizione plastica del secolo precedente, di Fidia e Policleto – e conferendo alla figura una nota di languida sensualità, che dissolve nella charis, la grazia, la severità del pieno classicismo. Nessun pudore, né impudicizia: lo sguardo sereno un po’ trasognato non tradisce turbamento per l’eventualità di essere sorpresa. Con indosso soltanto un bracciale e i nastri che trattengono i capelli, Afrodite tiene mollemente nella mano sinistra il lembo di un vestito, mentre la destra è portata davanti al pube: più che a nasconderlo, a orientare gli sguardi sulla vera scaturigine del suo irresistibile potere sugli uomini come sugli dèi e sulla natura.
Un potere esercitato ai suoi tempi dallo stesso simulacro marmoreo, se è vero che a Cnido più d’uno, come riferisce Plinio il Vecchio, preso dalla passione si sarebbe introdotto nottetempo nel tempio in cui era collocato, attaccandovisi in un amplesso non tanto metaforico tradito da un’eloquente macchiolina. E poi dicono, di certe ragazze poco invoglianti: «Un pezzo di marmo…».
Con la sua rivoluzione, Prassitele crea un riferimento obbligato per chiunque voglia raffigurare la potente dea dell’amore e in genere la donna nelle sue prerogative di seduzione. Guardare, per esempio, la Venere Cnidia che fa bella mostra nello spazio della Rotonda, bronzo di metà ’500 del Primaticcio, o altre opere moderne qui esposte, come le due Frine di Pradier (1845 e 1852) o quella dipinta da Gérôme davanti al tribunale dell’Areopago (1861). Ma è soprattutto in età ellenistico-romana che fiorirono le repliche e le opere prassitelizzanti, oggi a fatica distinguibili, di cui la mostra del Louvre presenta un ampio ventaglio: Veneri o pretese tali in cui il modello del maestro è imitato e infinitamente rideclinato, e poi Artemide, Apollo, Ermes, satiri – alcuni a torto o ragione accostati alla mano dell’artista ateniese, altri veri e propri pastiche frutto di restauri cinquecenteschi che hanno assemblato senza troppi scrupoli arti, busti e teste.
Tre soli i tipi statuari sicuramente attributi a Prassitele: oltre all’Afrodite Cnidia, l’Apollo Sauroctono («che uccide una lucertola») e il Satiro in riposo, copie del I secolo d.C. È in questi capolavori che la svolta imposta all’arte da Prassitele manifesta tutta la sua portata dirompente. Non più figure divine mature e solenni, ma corpi di giovinetti colti nei loro aspetti più umani e più vicini a noi, «fotografati» nel momento impercettibile tra l’immediatamente prima e l’immediatamente dopo di un’azione, nell’intenzione di un movimento latente pronto a scattare (Apollo che sta per colpire il piccolo rettile, il Satiro che sta per balzare). L’artista coglie e mette in scena l’attimo fuggente: anche nella statuaria non è più tempo di strutture stabili e indiscutibili, la realtà è ormai fatta di lampi cangianti. E quindi: non più visioni frontali, ma statue che vanno rimirate da ogni lato, e che da ogni lato rivelano un profilo nuovo e inatteso. E’ la lezione razionalistica dei sofisti che si fa sentire, e insieme il loro rifiuto della Verità unilaterale, la scoperta del prospettivismo e del relativismo, in anticipo su Nietzsche e sull’ermeneutica contemporanea.
Nello stesso tempo Prassitele abbandona la classica regola della ponderatio, e il baricentro della statua si sposta al di fuori del corpo, che ora per non cadere abbisogna di un puntello esterno: è l’altra grande innovazione, corrispondente a una fase della storia ellenica, e ateniese in particolare, in cui la pólis ha perduto il proprio equilibrio perpendicolare e autosufficiente, e per stare in piedi necessita sempre più di un «aiutino». Come quello che di lì a pochi anni fornirà Filippo di Macedonia, di fatto annettendo la Grecia al suo regno, dopo la battaglia la Cheronea del 338.
Tra i rari originali certi proposti dalla mostra, le lastre a bassorilievo di Mantinea, con scene di Muse, oltre a alcuni basamenti in cui compare la firma dell’artista, ma dai quali l’opera si è dissolta, come in un diabolico sortilegio. E poi la colossale testa (molto danneggiata) che soltanto 13 anni fa è stata riconosciuta – dal greco Georgios Despinis – come derivante dalla Artemide Brauronia vista da Pausania nel secondo secolo dopo Cristo durante la sua visita sull’Acropoli di Atene. Un’acquisizione insperata, ma anche un problema: perché cos’ha in comune, questo volto severo e maestoso, con la pacata indolenza dell’Afrodite Cnidia che sembra scrutarlo, distante pochi passi? Forse la nostra immagine di Prassitele è in parte da rivedere. E così il fantasma, che credevamo di avere acciuffato, riprende la sua fuga.
Fonte: La Stampa 21/03/2007
Autore: Maurizio Assalto
Cronologia: Arch. Greca