Lo storico greco Erodoto nel libro IV di “Melpomene” delle sue “Storie” racconta di una misteriosa isola, di fronte al paese dei Gizanti, chiamata Cirani o Kirani e nella quale vi è un lago. Per secoli i commentatori delle “Storie” non sono riusciti ad identificarla con precisione, forse tratti in inganno dal successivo passo in cui si dice che essa può essere raggiunta a piedi dal continente. Ma se si considera che i Gizanti erano popolazioni che abitavano lungo la costa tunisina presso Capo Bon, come concordano la maggior parte degli storici, l’unica isola con un lago posta nelle acque circostanti non può essere che l’odierna Pantelleria.
D’altronde l’isola è visibile, quasi quotidianamente, dalle coste tunisine e ciò potrebbe spiegare in parte l’inesattezza del passo di Erodoto, che peraltro in questo caso racconta per sentito dire della sua contiguità con il continente. Il D’Aietti nel suo “Libro dell’isola di Pantelleria” scrive testualmente che “nelle giornate chiare la costa tunisina si staglia così vicina che sembra di poterla toccare con poche bracciate di nuoto”.
La conferma che Cirani o Kirani non sia altro che Pantelleria ci viene poi dal nome fenicio impresso sulle monete che ebbero corso successivamente nell’isola: ‘Yrnm o Kyrnm, cioè Yranim o Kyranim. Quest’ultimo facilmente identificabile con la Kirani erodotea. Dunque uno dei primi documenti, che attualmente conosciamo, attestante il nome dell’isola sono le “Storie” di Erodoto composte nel V secolo avanti Cristo. E’ intuitivo che esse riportino un nome coniato in tempi antecedenti, forse preesistente da secoli e con buone probabilità da ricollegarsi alla misteriosa civiltà neolitica dei Sesi. Annotiamo che ai tempi di Erodoto i Cartaginesi non hanno ancora esteso la loro influenza sull’isola, sicuramente però è esistente, da tempo, nella stessa un importante scalo commerciale fenicio.
Sempre nello stesso libro, Erodoto racconta poi dello strano rito con cui le bellissime fanciulle di Kirani traggono dal lago, con piume di uccello, qualcosa di simile a pagliuzze d’oro. Al riguardo si potrebbe ipotizzare un rito misteriosofico di vergini legato al culto delle acque salutifere, a cui in antico si associò sempre la fertilità, nel quadro forse di un più vasto culto di una società con venature matriarcali verso la Grande Dea Madre, così come avveniva nella vicina Malta. D’altronde occorre considerare che, confinante con i Gizanti, Erodoto pone il popolo degli Zavechi, quest’ultimi organizzati in una società di tipo matriarcale in cui le donne guidavano perfino i carri da guerra. A sostegno dell’ipotesi avanzata sopra, vi sono sia le rovine del santuario di una dea della fertilità o dea madre ritrovate in Pantelleria nei pressi del lago, sia quanto si dirà di qui a poco sul significato etimologico dei nomi dell’isola.
I primi nomi, con cui Pantelleria fu indicata nei tempi antichi, sono quelli impressi sulle monete emesse dalla zecca dell’isola nel periodo antecedente e successivo all’occupazione romana. Queste monete, partendo dall’emissione punica più arcaica e giungendo a quella romana più recente, ripetono, pur con modifiche ed aggiunte, lo stesso tema iconografico. Infatti quasi tutte indistintamente portano impresse nel dritto una effigie femminile, e nel rovescio un ramo con delle bacche. Specialmente il rovescio con il suo ramo resta sostanzialmente identico in tutte le emissioni. Ed è proprio sul rovescio che, esclusa la serie più antica senza iscrizioni, viene impresso il nome dell’isola. Pertanto, fatta eccezione per il racconto di Erodoto e per una stele ritrovata a Cartagine, i più antichi documenti che attualmente conosciamo, riportanti il primo nome dell’isola, sono delle monete in cui si trovano impressi segni dell’alfabeto fenicio.
Questi segni sono scritti da destra a sinistra, verso comune alle lingue antiche e che è una reminiscenza di quando la scrittura aveva ancora carattere sacrale e si rifaceva quindi magicamente al cammino del sole, che è appunto da destra verso sinistra. Essi tradotti in consonanti della nostra lingua, i Fenici nel loro alfabeto non avevano vocali, danno ‘Yrnm, che non è poi nemmeno la traduzione letterale dato che la Y, sconosciuta ai Fenici, fu ricavata da un segno dell’alfabeto di quest’ultimi dai Greci per differenziazione, pertanto sarebbe più esatto scrivere Krnm.
La medesima parola, ‘Yrnm, si trova per indicare l’isola nell’iscrizione della citata stele di Cartagine. L’iscrizione, edita nel “Corpus Inscriptionum Semiticarum” (Vol. I, n. 265, tavola XLVII), è incisa in una stele, scoperta nel “tophet” di Salammbô e dedicata alla dea Tanit e al dio Baal Ammon da Abdsaphon, figlio di Himilk, che si dichiara del popolo di ‘Yrnm (Yranim). Questo Abdsaphon è uno dei membri dell’Assemblea popolare secondo il parere del professore M’Hamed Hassin Fantar nel suo “Empire de Carthage”.
‘Yrnm o Krnm è quasi certamente un nome semitizzato, forse i Fenici avevano tradotto nella loro lingua il nome con cui antichissime popolazioni mediterranee (il misterioso popolo dei Sesi?) avevano indicato se stesse o l’isola. Ad un esame etimologico approfondito la parola risulta composta da due parti: ‘Y o K e rnm. Nell’arcaica lingua preindoeuropea diffusa per tutto il bacino del Mediterraneo, ‘Y o K stava per “terra, isola”, basti qui ricordare il caldeo Ki (terra) ed il misterico segno egiziano della vita an-kh (cielo – terra). Resta da tradurre rnm, ma la limitazione dei segni fenici alle sole consonanti porrebbe degli ostacoli insormontabili, se non ci fosse d’aiuto il secondo enigmatico nome dell’isola, Cossura, che appare impresso a caratteri latini sulle monete emesse dalla zecca locale dopo la conquista romana.
Cossura/Cossyra, come nota acutamente anche il D’Aietti, è chiaramente un nome latinizzato, di conseguenza chi lo coniò cercò senza dubbio di ridurre in forma latina un preesistente nome, e questo nome non poteva che essere lo stesso ‘Yrnm o Krnm. Anche la parola Cossura va scomposta in due parti: Cos e sura. E Cos significa esattamente la stessa cosa di ‘Y o K, cioè “terra, isola”. Basta prendere un atlante storico e dare uno sguardo ad una cartina del Mediterraneo antico, per constatare che numerose sono le isole il cui nome comincia per Co o Ko (con le varianti Ci o Ki). La stessa parola con il medesimo significato si ritrova nel latino arcaico, che l’ha evidentemente assimilata dal linguaggio di popolazioni indigene. Cos o Cote era poi anche il nome di un’antichissima dea terra, la mitica madre di Asi.
Dunque se Cos non è altro che la traduzione di ‘Y, il medesimo procedimento di equivalenza deve essere valido per “rnm” e “sura”, per quest’ultima occorre notare che in tempi remoti nel bacino mediterraneo la radice “su” stava per “generare”, da cui “asu” letteralmente “vita, soffio o alito di vita”. La chiave per la soluzione dell’enigma ci viene offerta dall’ “Etymologicon linguae latinae” di Gerardi Ioannis Vossii, edito a Lugduni (Lione) nel 1664, dove alla voce “sura” si legge che essa in antico significava “ramo, germoglio vitale” e che la sua origine doveva farsi risalire ad una parola semitica, i cui segni grafici corrispondono esattamente a quelli di “rnm”. Inoltre il Vossii dava la versione araba traducendola “saiara”, che ritroviamo quasi identica nella parola con cui Pantelleria fu chiamata al tempo degli arabi (Quaw-sarah). Non è superfluo sottolineare che quaw in arabo significa “terra”.
Quindi “rnm” e “sura” vanno tradotte ambedue in “ramo, germoglio vitale” e un ramo circonda in tutte le monete sia la leggenda latina sia quella fenicia e, dato che anticamente sulle monete veniva generalmente impresso l’emblema della città o del gruppo etnico, quel ramo dovette essere il simbolo dell’isola.
Ramo sacro dunque e ciò spiega perché si sia fatto ricorso all’arcaica voce “sura” che contiene la radice “su” (“generare, vita”). Quest’ultima considerazione, insieme ad altri indizi, permette di scoprire che quello che ad un’occhiata superficiale sembra alloro è in realtà un ramo di mirto, pianta endemica in Pantelleria, che ha notevolissime rassomiglianze con l’alloro per ciò che riguarda le foglie e i frutti. Pertanto Yranim e Cossura vanno tradotti ambedue nell’espressione “Terra del ramo di mirto”, condensazione del più vasto concetto “Terra sacrata alla dea dell’amore e della fertilità”, dato che il mirto fin dall’epoca preistorica e giungendo fino alla tarda romanità fu sempre un albero sacro alla dea dell’amore e ai riti della fecondità. E che nell’isola sin dal neolitico ci sia stato un santuario pan-mediterraneo consacrato ai riti di questa dea molte cose lo lasciano supporre.
Nell’Ottocento sia l’Orsi, che resta senza dubbio il gigante dell’archeologia pantesca, sia l’archeologo tedesco Albert Meyer davano al nome di Cossura (Cossyra) il significato di “isola dei figli”, purtroppo ambedue senza fornire spiegazioni di come fossero giunti a questa conclusione. Comunque la tesi sostenuta dai due insigni studiosi corrisponde perfettamente a quanto finora abbiamo esposto sul significato etimologico dei nomi antichi dell’isola, infatti l’equivalente di “isola dei figli” non è altro che “isola della fertilità”.
Quanto sopra appena enunciato trova, ancora una volta, puntuale riscontro in una delle tante serie della monetazione coniata sull’isola, la quale presenta, nel dritto, una coppia che innalza un bambino dinanzi all’effigie della dea Tanit. Qualche frettoloso studioso ha voluto vedere in ciò un preciso riferimento al cruento sacrificio di bambini agli dei punici (peraltro già scomparso in tempi storici), mentre in realtà siamo di fronte a qualcosa di diametralmente opposto, il ringraziamento di una coppia alla Dea dell’Amore per averle concesso il dono della fertilità e quindi la nascita di un figlio. Pertanto quest’ultimo viene sacrato (non sacrificato!) dai genitori alla divinità benigna.
Della persistenza del nome Cossura/Cossyra fino alla tarda età imperiale romana si ha la conferma in una iscrizione del “Corpus Inscriptionum Latinarum”, vol. VIII, riportata anche dal Dessau nel suo “Inscriptiones latinae relectae” e dal Riese in un suo lavoro in lingua tedesca. Questa iscrizione riguarda un legionario arruolato nel III secolo dopo Cristo nella provincia romana dell’Africa e precisamente a Chusira, che è chiara derivazione degradata di Cossyra, Cosira. Purtroppo l’iscrizione è lacunosa nella parte relativa alla legione di appartenenza, ma quasi certamente deve trattarsi della III legione Augusta di stanza a Lambaesis, essendo in quel periodo in vigore la coscrizione territoriale. L’iscrizione testimonia pertanto l’assegnazione di Pantelleria, in quel torno di tempo, alla provincia d’Africa ed alla sua area di reclutamento legionario.
Dunque nel 300 d. C. il nome di Cossyra (Cosira, Chusira) è ancora in auge e, almeno sulle coste nord-africane, persisterà per secoli nell’indicare l’isola. Infatti, conclusasi la parentesi bizantina (VI – IX secolo d. C.) in cui l’isola viene chiamata con il nuovo nome di Patelareas/Patalareas, da cui deriva l’attuale, al momento dell’occupazione araba l’isola è nuovamente chiamata Ghusiras o Quawsarah, confermando così che l’antico nome per la marineria saracena non era mai andato in disuso.
Anche il nome coniato dai Bizantini però non scomparirà, almeno nelle carte nautiche delle marinerie occidentali, tanto che lo ritroviamo nella forma di Pantalarea, nell’anno 1087, quando la flotta pisana, con l’ausilio di navi genovesi, salernitane ed amalfitane, compie una terrificante incursione contro i Saraceni asserragliati nel castello dell’isola. Da questo momento e con questo nome l’isola comincia ad entrare definitivamente nella sfera d’influenza del mondo occidentale. Occorre però precisare che la Cancelleria sveva usò sempre il nome di Quawsarah, che è versione araba di Cossura, e che fino al secolo scorso, come scrive il Brignone, storico locale, “Cossyra è il nome dell’isola di Pantelleria tutt’ora conservato in Barberia”.
Dunque l’attuale nome di Pantelleria deriva, senza dubbio alcuno, da quello coniato dai Bizantini nel V o VI secolo dopo Cristo: Patelareas. Per divenire, cinquecento anni dopo, Pantalarea nelle carte nautiche pisane, infine per ritrovarsi quasi nella forma attuale, Pantellaria, negli archivi della Cancelleria angioina (1250 – 1300).
A questo punto è necessario aprire una piccola, ma doverosa parentesi. Da diversi anni circola, diffusa purtroppo in tanti scritti, la tesi, di sicuro elaborata originariamente da qualche buontempone, che il nome Pantelleria sia semplicemente l’italianizzazione del nome arabo di Bent el Riah, che significa “figlia del vento” e quindi per estensione “isola del vento”. Bella (?) come invenzione poetica, la cosa non regge alla benché minima verifica, siamo in presenza di una grossa cantonata, che cerca di reggersi soltanto su un’assonanza fonetica e sul fatto che effettivamente l’isola è spesso squassata dai venti. Dato incontrovertibile è che la Cancelleria araba usò sempre la dizione Quawsarah. Su questo argomento però si rischia di fare la fine fatta per il pantesco “castello del Barbacane”, in cui una peculiarità costruttiva è diventata col tempo un personaggio storico, malgrado le rettifiche e le precisazioni degli studiosi. Speriamo sorte migliore per questa sciocchezza di Bent el Riah.
Il primo documento ufficiale che riporta il nome di Patelareas risale al VI secolo d. C. ed è un Tipico, cioè la Regola di un monastero eretto nell’isola da monaci bizantini, i Basiliani. Patelareas è voce greco-tarda o bizantina, come confermato dal suffisso -eas, e significa “piatto, padella”, del vasellame domestico insomma. Ciò potrebbe benissimo correlarsi con la sagoma dell’isola vista al largo dai primi naviganti bizantini. Infatti Pantelleria, a chiunque giunga dal mare, appare all’orizzonte come una grossa testuggine o come un piatto oblungo rivoltato. Strano che il D’Aietti, attento e intelligente storico del posto, non sia giunto alla stessa logica conclusione, ma abbia optato per la traduzione in “tenda”, che francamente non convince. Considerando inoltre che il suffisso -eas, nella lingua greca, è specifico per nomi di mestiere, nel senso di “fare, produrre, generare” e per traslazione “ricco di” e considerando altresì che “patella” in antico significò soprattutto “piatto per sacrifici”, piatto sacro su cui si offrivano le primizie agli dei (vedi la famosa frase di Cicerone “edere de patella”, mangiare nel piatto sacro, cioè disprezzare la religione), e tenendo presente che certamente all’arrivo dei Bizantini persistevano diffusi nell’isola, seppur degradati da pratiche magiche, i culti e i riti della Dea della Fertilità mediante numerose offerte votive, una interpretazione etimologica di Patelareas potrebbe dunque essere, con traduzione letterale, di “generatrice di piatti sacrificali”, ovvero, in forma più comprensibile, “Terra ricca di offerte votive alla Grande Dea”.
Eravamo giunti a queste conclusioni diversi anni fa e quindi pubblicato vari scritti al riguardo, allorché furono editi gli studi degli inglesi Peacock e Fulford sulla così detta “Pantellerian ware”. Questi studi hanno dato, in parte, più forza alla nostra tesi e quindi si confermerebbe per Patelareas effettivamente il significato di “generatrice di patelle o piatti”, però inteso nel senso più prosaico di “produttrice di vasellame”.
La “Pantellerian ware” è un vasellame domestico dall’aspetto assai grossolano, che si presenta resistentissimo al fuoco di cottura in quanto il suo impasto argilloso è assai ricco di inclusi vulcanici. Ed è propria la peculiarità della sua resistenza al fuoco a decretare la sua fortuna commerciale, in tutto il bacino mediterraneo, per un lungo arco di tempo, che comincia con l’età augustea e perdura fino a tutto il periodo bizantino. Questa ceramica è stata ritrovata dagli archeologi un po’ dappertutto: sulle coste africane da Cartagine a Sabratha, in Sardegna, sulle coste tirreniche fino a Ventimiglia, in Sicilia e con particolare diffusione ad Agrigento, Segesta, Termini Imerese. L’identificazione del centro di diffusione e provenienza con l’isola di Pantelleria si deve ai citati Peacock e Fulford, i quali, mediante accurate indagini ed analisi sull’argilla con cui questa ceramica è confezionata, hanno evidenziato che i minerali inglobati si trovano insieme, in quella stessa percentuale di composizione, solo ed esclusivamente in rocce vulcaniche di Pantelleria.
Recenti scoperte archeologiche, con l’individuazione di cave e vasche di lavorazione di argilla nelle località contigue di Rekale e Nicà nonché di grossi magazzini di stoccaggio del vasellame a Scauri Porto, hanno confermato l’esistenza nell’isola di un vero e proprio centro di produzione, a livello quasi industriale, di vasellame domestico per l’esportazione. Deve essere stata la potente ed organizzata marineria bizantina, nel periodo in cui questa industria ed il relativo commercio erano ancora fiorenti, a dare all’isola, con termine mutuato dalla lingua greco-bizantina, il nome di Patelareas, correlando quest’ultimo alla caratteristica più evidente del luogo, cioè di “terra produttrice di patelle o piatti”.
I Bizantini, al momento del loro insediamento stabile in Pantelleria, danno nuovo impulso alla produzione ed esportazione della ceramica. Navi, con grossi carichi di vasellame, salpano periodicamente dal porto di Scauri (dal greco, “scalo”), il porto dell’isola preferito dai marinai di Bisanzio. A testimonianza di questa frenetica attività commerciale il relitto di una nave bizantina di fine V secolo dopo Cristo, ritrovato alla profondità di 8 – 12 su un fondale sabbioso all’imboccatura del porto di Scauri. Sparsi tutt’intorno innumerevoli frammenti di “Pantellerian ware”.
Fonte: Redazione
Autore: Orazio Ferrara
Cronologia: Arch. Romana