Nell’estate del 2012, un gruppo di giovani archeologi dell’Università di Stanford venne in Sicilia alla ricerca di un sito archeologico subacqueo che potesse divenire cantiere di studio e ricerca per l’Università americana durante la loro Summer School. Con l’allora Soprintendente del Mare Sebastiano Tusa e un gruppo di colleghi, accompagnammo gli archeologi in alcuni siti subacquei della Sicilia orientale, nel tratto di mare tra Marzamemi e la riserva naturale di Vendicari.
Tracce del passato che avevamo già parzialmente indagato, furono in quei giorni oggetto delle attenzioni degli studiosi americani. Tante immersioni su tracce di relitti, carichi di imbarcazioni naufragate, grandi colonne e blocchi in marmo; giornate intense di prospezioni, foto, rilievi. Alla fine delle ricognizioni, concordammo per un sito sommerso a pochi metri di profondità, proprio di fronte la grande spiaggia di Marzamemi. Si tratta di un relitto del VI secolo d.C. e del suo carico, già studiato negli anni ’60 dal pioniere dell’archeologia subacquea, l’archeologo tedesco Gerhard Kapitän, scomparso a Siracusa nel 2011.
Con molta probabilità una imbarcazione che naufragò in prossimità della costa per cause ignote. Kapitän scavò e recuperò alcuni dei manufatti durante le prime esperienze di scavo subacqueo effettuate alla metà degli anni del secolo scorso: una campagna che portò alla luce decine di colonne, capitelli, marmi, gradini, parti di architetture. In sostanza i pezzi di una basilica smontata, trasportata via mare fino in Sicilia, per essere rimontata probabilmente nel siracusano. Una operazione diffusa all’epoca, antesignana dei moderni sistemi di trasporto e montaggio dei mobili che arredano le nostre case.
Ma dopo un oblio di 60 anni e una indagine condotta con i mezzi, le tecniche e le conoscenze dell’epoca, il sito della basilica bizantina era pronto per una nuova affascinante campagna di studi. Già dall’estate successiva l’Università di Stanford stabilì una sua base operativa a Marzamemi con un team di tecnici e studenti, il meglio che la prestigiosa università americana poteva mettere in campo. Archeologi, topografi, tecnici informatici, storici, subacquei, con la Sicilia e la sua Soprintendenza del Mare a coordinare i lavori, grazie alla sua esperienza nel campo dell’archeologia subacquea e nelle tecniche di scavo.
Fu per tutti una straordinaria esperienza di collaborazione e fu soprattutto l’occasione per mettere in pratica quella multidisciplinarietà che aveva guidato la nascita della struttura siciliana e che fu, fino alla fine, il leitmotiv che contraddistinse la carriera scientifica e politica di Sebastiano Tusa. Furono, soprattutto il primo anno, giorni di duro lavoro e di grande confronto con i nostri colleghi di oltreoceano. Ci trovammo a lavorare con un gruppo di persone molto preparate e all’avanguardia nelle tecniche di rilievo subacqueo, soprattutto tridimensionale, allora ancora quasi sconosciute in Italia.
Fu una grande occasione di arricchimento professionale e di scambio culturale. Le immersioni si susseguivano per tutta la giornata, le rimanenti ore erano dedicate alla elaborazione dei dati raccolti e allo studio dei nuovi software che per la prima volta utilizzavamo. E l’unica lingua comune, l’inglese, ci permise almeno di migliorare la nostra pronuncia durante i nostri tentativi di “convertirli” alla buona cucina.
Dal 2013, ogni anno lo scavo archeologico della chiesa bizantina di Marzamemi diventò un appuntamento fisso. Si passò, nel tempo, da una campagna di ricerche di 15 giorni ad un programma di due mesi. Le ricerche andarono avanti e le scoperte furono entusiasmanti. Un laboratorio e una base logistica concessa dal Comune di Pachino, divenne la nostra seconda casa. Nonostante i ritmi serrati il lavoro era piacevole e interessante. Il piccolo gruppo iniziale di dieci persone diventò un corposo team di più di 50 partecipanti di cui circa la metà giovani studenti universitari. Un team affiatato che grazie alla perfetta sinergia creata fra enti e istituzioni, riuscì a portare avanti un cantiere di scavo dove contemporaneamente si immergevano sei squadre di subacquei dalle otto del mattino alle cinque del pomeriggio.
Il lavoro di scavo continuò a ritmi elevatissimi per molte stagioni, fino alla scorsa estate. I risultati scientifici furono di grande rilievo. Fino ad oggi sono stati individuati e recuperati centinaia di reperti: colonne in marmo, capitelli, fregi, amboni, manufatti, chiodi, piccole parti in legno, ceramica. Una grande quantità di materiali che, dopo il restauro, permetteranno di ricostruire l’intero edificio e la struttura della nave con la disposizione del carico trasportato. Un progetto ambizioso che vede la sua realizzazione sempre più vicina grazie anche al lavoro dei tecnici dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli che, divenuti partner del progetto, stanno realizzando il modello tridimensionale dell’intera basilica dopo avere effettuato le scansioni laser di tutti i reperti recuperati dal fondo del mare.
Il Palmento Rudinì di Pachino ospiterà, speriamo presto, l’imponente ricostruzione; dopo più di 1500 anni il sogno di chi aveva progettato la basilica bizantina verrà realizzato e tutti i pezzi recuperati e restaurati verranno rimontati per offrirli alla pubblica fruizione. Purtroppo i lavori quest’anno saranno fermi: l’emergenza sanitaria ha bloccato questi, come tutti gli altri lavori nei cantieri di scavo subacqueo. Una prossima stagione difficilmente realizzabile anche in virtù dei tanti spostamenti di persone necessari tra i due continenti. Dall’anno prossimo riprenderanno i lavori. Un grande progetto dell’antichità realizzato oggi da un grande team di studiosi e dall’idea di Sebastiano Tusa, l’archeologo visionario che troppo presto ci ha lasciato un patrimonio di idee da portare avanti.
Autore: Salvo Emma
Fonte: www.quntastories.it, 27 mag 2020