Puntuale e ciclico come le stagioni o gli uccelli migratori, un altro attacco ai principi della tutela è in viaggio nelle aule parlamentari. Già abbiamo assistito impotenti agli sgangherati condoni in materia paesaggistica e ambientale; mentre sono state sventate per fortuna altre manovre, come quella sul “condono archeologico” per i tombaroli e i loro complici e quella sul silenzio-assenso che cancellava di fatto la tutela durante i lavori per grandi opere pubbliche, in tutti questi casi, il bersaglio è, si badi bene, il Codice dei Beni Culturali che questo stesso governo ha approvato: evidentemente, il Codice non ha corrisposto alle attese di chi sperava che esso fosse la pietra tombale sulla gloriosa tradizione italiana di tutela.
L”archeocondono” era palesemente ispirato da tutto un sottobosco di mercanti di antichità (il primo firmatario della proposta, onorevole Conte, è stato nel frattempo premiato con una poltrona di sottosegretario). Non è diffìcile riconoscere un animus simile nell’emendamento “in materìa di cose di interesse numismatico” inserito, su proposta del senatore Eufemi (Udc), in una legge di conversione del decreto-legge su “Mezzogiorno e diritto d’autore”: ennesima conferma che, dopo aver varato una legge organica (il Codice), ogni contenitore è buono per smantellarla.
Secondo l’emendamento 2.0.600 (art. 2 decise), sono escluse da ogni forma di tutela “le monete antiche o moderne di modesto valore o ripetitive, o conosciute in molti esemplari o non considerate rarissime”.
C’è di che trasecolare: uno statuto tanto peculiare per le monete si spiegherebbe solo se, nel regime di tutela vigente, esse fossero soggette a norme particolarmente restrittive, il che evidentemente non è (basti rileggersi l’articolo 10 del Codice). Anzi, il Codice prevede che siano soggette a tutela solo le monete di “interesse storico o artistico particolarmente importante” in quanto esemplari singoli, o di “eccezionale interesse” per le serie o collezioni di monete.
Un caso speciale sono i “tesoretti”, e cioè quei gruzzoli nascosti, spesso in un orcio, in tempi di guerra e calamità, e che talvolta si ritrovano dando informazioni inestimabili, sulla storia economica e la circolazione monetaria: è chiaro che anche se le singole monete dì un “tesoretto” sono ripetitive, l’insieme costituisce un unicum.
È dunque chiaro che l’emendamento è volto a sottrarre alla tutela precisamente quelle monete che sono di particolare o eccezionale interesse. E lo fa in nome del concetto di “ripetitività”: quasi che le monete antiche fossero davvero tutte uguali, come quelle che abbiamo nei nostri portamonete.
Ma qualsìasi studente sa che le procedure di zecca e di conio (o la combinazione dei coni) nelle società antiche era assai meno standardizzata e controllabile {anche per ragioni tecniche) di quanto oggi non sia; e che, mentre per epoche più recenti conosciamo le procedure di coniazione grazie a documenti d’archivio, così non è per le monete, poniamo, dei Greci o dei Romani.
Ci sono, è vero, monete “ripetitive”: ma perché si somigliano,non perché sono identiche. Distinguere fra somiglianze che sono storicamente rilevanti (in quanto consentono di analizzare e ricostruire le procedure di coniazione) e quelle che non lo sono è affar serio, che solo pochi specialisti sono in grado di fare.
Un solo esempio; posso benissimo avere venti monete che sembrano uguali fra loro, ma che differiscono per piccole differenze di peso o di lega (con diminuzione dei metalli pregiati, oro e argento).
In questo caso, solo l’esame di queste differenze consentirà l’analisi dei processi di inflazione che inducevano a «risparmiare» sul peso o sulla lega.
Ciò che appare ripetitivo può benissimo non esserlo. Le monete non sono solo oggetto di collezione e di commercio, sono primariamente un documento storico che da informazioni spesso insostituibili.
Più gravi ancora sono altri due aspetti dell’emendamento Eufemi. Prima di tutto, il giudizio sulla ripetitività o meno delle monete è interamente rimesso nelle mani del privato proprietario, senza alcun intervento dì merito delle strutture di tutela (peraltro poverissime di esperti numismatici, una diecina in tutta Italia).
In secondo e non ultimo luogo, se dovesse passare il principio della “ripetitività a giudizio del proprietario”, non si vede perché applicarlo solo alle monete e non, poniamo, alle anfore, alle lucerne, e così via.
L’intero sistema della tutela ne verrebbe non solo delegittimato, ma di fatto annullato. Chiunque abbia in mano qualsiasi oggetto può considerarlo, in buona o mala fade, ripetitivo, e come tale sottrarlo impunemente alla conoscenza e allo studio. Il senatore Eufemi non è nuovo a queste tematiche, visto che aveva già presentato un disegno di legge (A.S. 2153) sostanzialmente identico a questo, e in Commissione Cultura, nel dicembre 2003, propose, senza successo, di modificare il Codice in questo senso. Questo è dunque il suo terzo tentativo. Se il senatore Eufemi è animato, come non dubito, non da indebite pressioni di mercanti e collezionisti, bensì da autentico senso della Storia e dello Stato, dovrà certo riconoscere quanto sia singolare che un emendamento distruttivo come il suo debba insediarsi nel testo di un DL all’origine di due soli articoli, che per strada si è trasformato da utilitaria in omnibus, e ciò senza che ci sia la minima ragione di necessità e urgenza (lo ha osservato l’onorevole Lettieri).
Viene in tal modo disattesa la previsione della Costituzione (articolo 77), nonché il forte richiamo ad essa del Capo dello Stato in un messaggio di rinvio alle camere del maggio 2002.
In quel caso si registrava un’attinenza debole (nel caso delle monete, insussistente) alle disposizioni del decreto originario, stravolgendosi in tal modo l’istituto stesso del decreto legge e rendendo il testo (scriveva allora Ciampi) “di difficile conoscibilità nel complesso della normativa applicabile”. Per ragioni di fatto e di diritto, l’emendamento Eufemi va dunque considerato inaccettabile.
Fonte: La Repubblica 25/06/05
Autore: Salvatore Settis