Quando si parla di archeologia, di solito il giornalismo si limita a raccontare. Il «Progetto Plinio», invece, è nato grazie a un articolo su questo giornale e ha prodotto una ricerca scientifica su quella che, sempre più verosimilmente, è l’unica reliquia esistente di Gaio Plinio Secondo detto il Vecchio, scrittore, naturalista, filosofo e ammiraglio romano, cui si deve la prima operazione di protezione civile documentata della storia.
La cronaca del nipote
Quando, nel 79 d.C., il Vesuvio esplose sommergendo Pompei e Ercolano, Plinio era capo di stato maggiore della Marina romana e comandava la flotta ormeggiata a Capo Miseno. Con lui era il nipote Plinio il Giovane che ci ha raccontato la sua fine. Incuriosito dall’eruzione, lo zio stava per recarsi a vedere di persona, da solo, quando ricevette una disperata richiesta d’aiuto da Rectina, vedova di un suo collega, Sesto Licinio Basso. Resosi conto del disastro incombente per migliaia di persone cambiò i piani e mobilitò le sue quadriremi per recuperare – tramite lance – i cittadini ammassati sulle spiagge da Ercolano a Stabia. Fu il primo salvataggio di civili con mezzi militari della storia. Plinio stesso, a bordo della Fortuna, diresse verso Stabia per salvare il suo ricchissimo amico Pomponiano il quale aveva già caricato i propri averi su due naves a vela, rimaste inchiodate a terra dai venti contrari. A causa del mare agitato e dell’oscurità, per il ritorno fu necessario attendere sulla spiaggia.
Plinio, già 56enne e grosso di corporatura, ebbe un malore; chiese dell’acqua e, aiutato da due schiavi, si sdraiò. Tre giorni dopo, il suo cadavere fu trovato intatto, come se dormisse. Stando al Giovane, era stato soffocato dalle polveri, ma si parla anche di un odore di zolfo, tipico di un gas letale, l’acido solfidrico, emesso sovente dai vulcani.
Lo scavo
Nel 1900 un ingegnere napoletano, Gennaro Matrone, fa eseguire alcuni scavi nel suo terreno presso l’antica spiaggia di Stabia: emergono 70 scheletri ammassati in pochi metri. Le loro ossa non sono bruciate; forse li ha uccisi un gas. In disparte, si rinviene uno scheletro dai caratteri negroidi di 2,10 metri di altezza e – stranamente composto – quello di un uomo supino con accanto una brocca. La testa è appoggiata a un pilastro, ma soprattutto è carico di preziosissime insegne militari d’oro. L’ingegnere segnala la scoperta alle autorità ma, ignorato, vende gli ori a collezionisti stranieri. Un diplomatico francese gli suggerisce che lo scheletro potrebbe appartenere a Plinio.
Matrone pubblica in un libello questa ipotesi, che però viene derisa dagli archeologi. Tra questi, Giuseppe Cosenza, il quale ironizza sul fatto che un ammiraglio romano non potesse certo mostrarsi addobbato come «una ballerina da avanspettacolo».
Demoralizzato, Matrone conserva solo il cranio e il gladio, che finiranno, poi, definitivamente al Museo dell’Arte sanitaria di Roma.
L’indagine
Nel 2010 un altro ingegnere campano, Flavio Russo, archeologo sperimentale, pubblica per lo Stato Maggiore della Difesa il volume 79 d.C., rotta su Pompei, dove rivaluta l’attribuzione a Plinio. Nel 2017, La Stampa rilancia l’idea di Russo di far eseguire un esame isotopico sui denti per verificare dove il soggetto avesse trascorso l’infanzia (le acque possiedono isotopi diversi a seconda delle regioni, che restano imprigionati nello smalto dei primi denti permanenti). La notizia fa il giro del mondo e alcuni sponsor rispondono all’appello. L’Accademia di Arte Sanitaria costituisce la onlus «Theriaca» per acquisire i fondi di Sofia Medrano, Ivan Pavlov, Alessandro Francoli e Giorgio Nicastro.
Chi scrive coordina un pool di ricercatori di alto profilo: il primo esame è quello isotopico sui denti della mandibola (il cranio è privo di mascella superiore) condotto da Mauro Brilli, geochimico dell’Igag-Cnr. I risultati sono entusiasmanti: il soggetto, all’età di sei-sette anni, potrebbe essersi trovato (almeno in Italia) in un’area tra Appennino centrale e Pianura Padana comprendente anche Como, città natale di Plinio. Presto però arriva la doccia fredda: l’esame dell’età di morte del soggetto, condotta sugli stessi denti da Roberto Cameriere, docente di Medicina legale a Macerata, riporta un risultato impietoso: 37 anni. Non può essere Plinio, morto a 56.
Il pool di ricercatori vive un momento di sconforto, quando, a sorpresa, arriva il colpo di scena: l’antropologo fisico Luciano Fattore intuisce che la mandibola potrebbe appartenere a un altro soggetto. David Caramelli, direttore del dipartimento di Biologia all’Università di Firenze, insieme con Alessandra Modi, esegue l’esame del Dna antico e conferma: sono due uomini diversi. La calotta dell’ammiraglio era priva del massiccio facciale e Matrone aveva ricomposto il teschio prendendo «in prestito» un’altra mandibola, di un 37enne, appunto.
L’aplogruppo genetico viene poi studiato da Teresa Rinaldi, biologa della Sapienza: la calotta è compatibile con un cittadino romano-italico. La mandibola potrebbe essere riconducibile anche alla fascia nordafricana, soprattutto alla Numidia. Forse si tratta di quel nero altissimo? Uno schiavo-guardia del corpo? Plausibile, visto il rango dell’ammiraglio, tanto più che un terzo dei marinai romani erano africani. Tuttavia, l’esame isotopico sui denti esclude la provenienza africana. Forse un nero di seconda generazione, cresciuto «in cattività» in Italia. Ciò che conta è però la calotta. Fattore ne esamina le suture craniche: l’età alla morte stimata per la volta è di circa 45,2 anni, ± 12,6 anni (resta quindi plausibile fino ai 57,8) mentre per il sistema latero-anteriore è di circa 56,2, ± 8,5 anni. In questo caso, il valore centrale corrisponde curiosamente all’età di morte di Plinio.
Autore: Andrea Cionci
Fonte: www.lastampa.it, 23 gen 2020