Non sempre viene conferito il giusto valore, con conseguente dovuta tutela, alle bellezze architettoniche che racchiudono in sé anni ed anni di storia e cultura, patrimonio inestimabile della “città di Partenope”.
Parliamo, nel caso di specie, dell’un tempo “Castello del Carmine” (chiamato anche lo Sperone in riferimento alla sua forma cilindrica), ovvero il castello perduto di Napoli del quale, oggi come oggi e peggio di ieri, restano in piedi, si fa per dire, solo due torri, un torrione e le tipiche mura merlate, di certo non più, anzi, rinforzate di gran lunga da grossi blocchi di piperno.
L’assoluto abbandono all’incuria ed al degrado, che continuano a sfregiare ogni traccia testimoniale del sito, nonché cataste di rifiuti in ogni angolo, hanno fatto e fanno il resto. Insomma, ecco il classico monumento all’indifferenza istituzionale generale, ed all’inciviltà oramai conclamata dei tanti incoscienti, selvaggi, di turno. Ma andiamo per ordine.
Il fu Castello, eretto nel 1382 da Carlo III di Durazzo, quale fortificazione posta a sud est del tracciato di mura angioine, aveva il duplice compito di chiudere Napoli in quella direzione e di costituire un bastione che difendesse la città dagli attacchi esterni ed anche interni, oltre a rappresentare un monumento di grande rilievo visivo nella piazza, dove già sorgeva la Chiesa del Carmine.
Fu l’ultimo “baluardo” costruito, andando a completare la linea marittima che, più a ovest, già annoverava il Castel Nuovo e l’antichissimo Castel dell’Ovo. Solo quattro anni dopo la sua nascita, nel 1386, il castello vide il suo primo scontro, quello tra Ladislao di Durazzo e Luigi II d’Angiò, col secondo che ebbe la meglio e, quindi, gli Angioini confermarono il proprio potere a Napoli.
Fu, poi, la volta degli aragonesi, che con Pietro e Alfonso d’Aragona, attaccarono da mare la città allora governata da Renato d’Angiò. Altro episodio che vide il Castello del Carmine protagonista, accadde durante la rivolta di Masaniello e del suo successore Gennaro Annese, che si chiuse nel torrione del Castello, dove aveva le sue stanze, da cui fu fatto sgomberare per ordine del viceré dell’epoca, e su consiglio del cardinale Filomarino,
Altro episodio fu nel 1701, nella cosiddetta congiura di Macchia, che si sviluppò a seguito del vuoto dinastico in Spagna, per il deceduto Carlo II d’Asburgo, morto infermo e senza eredi. Scoppia allora la guerra di successione spagnola: si scontrano il viennese Carlo VI degli Asburgo di Vienna e Filippo V, nipote del re Sole e di Filippo IV di Spagna, ragion per cui vantava pretese di successione al trono spagnolo.
Di questa crisi approfittarono i nobili napoletani, vogliosi di liberarsi dall’oppressivo vicereame. Tutto si svolse nella convulsa piazza Mercato, il campo del Moricino, chiuso a sud – est dal forte del Carmine.
Trascorre oltre un secolo (siamo nel 1860), ed intanto a Napoli il Castello del Carmine comincia a essere visto come un inutile ingombro del passato, con la città che si espande verso Oriente. Anticamente, oltre le mura orientali, c’era una zona paludosa (la Palus neapolitana), durante il cui “Risanamento” si aprono corso Garibaldi e, volendo ridefinire la linea viaria di costa, si procede alle parziali demolizioni del forte.
Soprattutto via Marina impone che, negli ultimi decenni dell’800, parte delle mura del castello venga abbattuta. Per sempre. E’ l’inizio di un tramonto inglorioso. E’ storia di questi anni, di questi giorni, negata, calpestata, sporcata, sebbene alcuni tentativi anche recenti, di restyling mai portati a termine risolutivamente, di recupero-bonifica-valorizzazione purtroppo mal riusciti, se non addirittura abortiti sul nascere.
L’intera area del già Castello del Carmine, attualmente, è ridotta proprio male, in quanto “colonizzata” tutt’intorno ed all’interno delle mura, in tutte le ore del giorno (figuriamoci di notte!), da gruppi di extracomunitari per lo più clandestini o comunque irregolari, che vi “abitano” tra giacigli e capanne, residui di materassi e coperte, cataste di rifiuti e siringhe “consumate”, discariche a cielo aperto.
Il posto, inoltre, è stato trasformato in un ricovero per ubriachi, senza tetto, tossici, malintenzionati e delinquenti, pure nostrani”, che spacciano droga e sesso. Insomma, da queste parti e dintorni, il degrado dilaga in tutte le sue forme peggiori. Altro che auspicate aperture alla cultura, al territorio ed al sociale.
La storia sembra essersi fermata al palo. Con turisti e visitatori che hanno di che stupirsi e restare esterrefatti. Per poi passare oltre.
Autore: Gennaro D’Orio – doriogennaro@libero.it