Erano secoli che la tampinavano. Millenni. Prima i romani che soppressero il popolo che la venerava, i sabini. Poi monaci e sant’uomini su e giù per oscure forre, a distruggere ogni vestigia d’antichi dei, edificando sulle rovine di templi e sacelli chiese e cappelle. E gli eruditi umanisti, quando le nebbie del Medioevo cominciarono a schiudersi su altre ere, e i filosofi dei secoli nuovi.
Infine, soprintendenze e archeologi. E, sempre, cacciatori di pietre e tombaroli d’ogni epoca. Lei niente, resisteva a ogni assalto, svanita nel nulla come il nome che l’evocava. Vacùna. Dal Vacuum, il vuoto delle selve primigenie dove l’umano smarriva percezione di sé, affidandosi al divino femminino che evocava a un canto l’ozio ristoratore nella transumanza dei greggi e l’assenza della persona amata, il sostentamento fisico e morale.
Punto di passo tra le dee madri preistoriche e le teogonie arcaiche, unica deità femminile al vertice di un pantheon protostorico. Suprema oggettivizzazione d’un popolo di pastori nomadi che dalle piane alluvionali tra il Tigri e l’Eufrate si mossero, a piedi, a ondate, fino alle catene appenniniche dell’Italia centrale, agli albori dell’età del ferro. Per dare vita a una comune koiné centroitalica, impasto di lingua, cultura e strutture sociali che avrebbe permeato di sé le popolazioni di stirpe sabellica, dai piceni ai sanniti. E fondato quella Roma che, alla fine, tutti avrebbe ingoiato, padri e fratelli.
Lei no. Troppo complessa era la dea, troppo distante dalla mentalità dei conquistatori e dalla rozzezza dei mores romani per poterla comprendere appieno, o anche solo assimilare. Si preferì dare a essa nomi nuovi, incerti attributi. Vesta, Bellona, Vittoria. Vacuna rimase sempre un mistero, per tutti.
Ora quel mistero è riemerso dalla polvere dei millenni. A Montenero, a mezza via tra Roma e Rieti, su un pianoro sotto al quale scorre il Farfa, al crocevia d’uno di quei tratturi che dalla Sabina amiternina, interna, conducevano a quella tiberina. Qui s’è trovato il primo dei suoi templi, dei tanti santuari d’altura che punteggiavano la sua terra. Un pool di archeologi di Lione, coordinati da Aldo Borlenghi e Matthieu Poux, seguendo una dritta dell’archeologo locale Federico Giletti, scavano e setacciano pietrami per una campagna che, avviata nel 2019 e complicata dalla pandemia, durerà un paio d’anni e sta dando i suoi primi frutti.
Grazie anche alla fattiva collaborazione della giunta comunale guidata dalla giovanissima Lavinia De Cola. Scordatevi colonnati e statuaria, quel che c’è e si vede nei 200 metri quadri dell’area di scavo son tre muracci a secco, brani di pavimentazione in cocciopesto e tesserine marmoree, terrecotte di copertura franate, fosse sepolcrali e favisse dove si sono conservati gli ex voto.
Quel che s’è trovato è esposto nel giardino della parrocchiale di San Cataldo, spazzolato e lavato dai ragazzi dell’università Lumière di Lyon. Un utero miniaturizzato. Un volto di coccio. Pissidi e brocchette. E basi, carbonizzate, dei bracieri dove ardevano i fuochi vacunali nelle cerimonie autunnali in onore della dea, a base di frutta di stagione e vino novello.
“Aspettiamo di trovare qualche iscrizione per avere la certezza che si tratti del santuario di Vacuna. Ora siamo al 99%”, dicono i ricercatori. Per ora, la certezza è un cippo rotolato giù dal pianoro, trovato negli Anni Cinquanta, con una dedica alla dea. Roba romana, come tutto il resto ritrovato finora, risalente al terzo secolo avanti Cristo. Al tempo dell’ultima guerra sannitica, o meglio italica, e della definitiva occupazione della Sabina. E si continua a scavare, tra reperti e sepolture dell’Anno Mille. Segno d’una frequentazione, e della sacralità del luogo, ben oltre il tempo della conquista.
Autore: Maurizio Zuccari
Fonte: www.artribune.com, 29 lug 2021