“Un popolo che parla in spagnolo e pensa in maya”. Così definì gli abitanti dello Yucatán il celebre scrittore messicano Antonio Mediz Bolio. I Maya della penisola sembrano infatti i ritratti viventi delle sculture preispaniche.
Metà circa della popolazione dello Yucatán è Maya. Una sintesi eloquente dell’identità meticcia. Né maya né spagnoli.
Nell’architettura, nella lingua, nella religione, nei costumi, nella gastronomia, la contaminazione tra l’antica cultura maya e quella dei “conquistadores” ha prevalso.
Ci sono parole maya entrate nello spagnolo ma anche viceversa. I Maya continuano a chiamare il cavallo “tzimin”, che significa tapiro, nome che associarono al quadrupede che non conoscevano.
Ci sono pietre maya nelle chiese e nei palazzi coloniali, vestigia del passato preispanico dissimulati dagli archi dei conventi, dalle recinzioni delle grandi tenute rurali.
“Cochinita pibil, Poc Chuc, papadzules”: ci sono reminiscenze maya nei nomi e nei sapori della sfiziosa gastronomia yucateca (di cui abbiamo parlato in “Yucatan sconosciuto”).
Ritmi preispanici accompagnano rituali antichi mimetizzati nelle feste cattoliche della penisola. Questa è la vera resistenza dei discendenti dei Maya, che crearono la più evoluta civiltà mesoamericana: simboli e miti sopravvissuti alla conquista spagnola, dèi preispanici travestiti per secoli da santi cristiani.
Ma qual è l’elemento più evidente di continuità con il passato? La lingua: “maya yucateco”. Nella penisola protesa tra il Mar dei Caraibi e il Golfo del Messico lo parlano in tutti i paesi non soli gli indigeni, come avviene (per altre lingue) negli altri stati del Messico, ma anche i meticci.
Dal maya “ma” (no) e “yaab” (molti): “non ce ne sono molti”. Ecco il significato di Mayab, che si legge sull’insegna degli autobus che percorrono la penisola che i Maya abitano da qualche millennio. E allora perché viene chiamata Yucatán?
L’origine del toponimo deriva da un equivoco. Gli Spagnoli intesero “u’y than” (Yucatán) ma era solo un commento alle prime parole dei “conquistadores”: “ascolta come parlano”, dicevano i Maya senza comprendere la nuova lingua. Ma il nome rimase appiccicato da allora a questa torrida pianura calcarea senza corsi d’acqua superficiali, ma percorsa da fiumi sotterranei che formano lagune di acqua fresca cui si accede da pozzi naturali profondissimi. Che i Maya avevano chiamato “cenotes” costruendovi intorno i propri insediamenti.
Oggi la penisola yucateca è una delle zone archeologiche più ricche d’America, che si allarga nel Chiapas, nel Belize, nel Guatemala, nell’Honduras, nel Salvador.
Tutto lo Yucatán è costellato di resti monumentali. Uxmal, Chichén Itzà, Tulum non sono che i più conosciuti. Molti altri siti punteggiano la regione più settentrionale della vasta area culturale dei Maya, le cui origini risalgono circa al 1500 a.C., il massimo splendore al periodo Classico, che diede grandi risultati in campo matematico, astronomico e il più completo sistema di scrittura dell’America preispanica; il tramonto, avvolto nel mistero, al X secolo. Come Edznà, a sud-est di Campeche che merita soprattutto per la piramide de Los Cinco Pisos; o Dzibilchaltun, a nord di Merida, centro cerimoniale percorso da un ampio viale centrale con una piazza dove si trova il “Templo de las siete Muñecas” così chiamato per il rinvenimento di sette bambole (muñecas) in argilla al suo interno; o Mayapàan, a sud della capitale yucateca, un sito importante, ma di più difficile lettura, che fu una delle capitali maya; o, sempre a sud di Merida, la Ruta Puuc e ancora, a nord di Valladolid, Ek Balam del primo periodo classico, a nord di Tulum, Cobà e, un centinaio di chilometri a ovest di Chetumal, le suggestive rovine della regione Rio Bec (di cui abbiamo parlato in “Yucatan sconosciuto”), poco frequentate per la loro posizione immersa nella grande foresta.
Già, piramidi, ma non erano vere piramidi quelle dei Maya: tranne rare eccezioni, non erano cioè monumenti sepolcrali. Templi, piuttosto, o meglio, enormi basamenti a gradoni per i templi che sorgevano alla sommità, dove potevano accedere solo i sacerdoti.
Lo scopo era ben preciso: impressionare la popolazione che assisteva ai rituali dal basso. Ogni governante ingrandiva le costruzioni sovrapponendo nuove strutture e accrescendo la grandiosità dell’effetto.
Un esempio è la Piramide del Adivino, a Uxmal. Appare per prima, oltre l’ingresso del sito: trentacinque metri puntati verso il cielo e una ripidissima scalinata centrale che una catena aiuta ad affrontare per guadagnare il tempio che sorge alla sommità. Dove la vista è spettacolare.
A un’ottantina di chilometri a sud di Merida, Uxmal è defilata rispetto alle rotte più battute dai visitatori, e bellissima. Di quella che fu una gloriosa città tra il 600 e il 1000 d.C., si conserva tutta l’area monumentale, uno dei migliori esempi dell’architettura maya.
Poco oltre l’Adivino vi sono quattro grandi edifici, decorati da motivi geometrici e figure umane e animali, che gli Spagnoli chiamarono Quadrilatero delle Monache credendo, erroneamente, che dovesse ospitare un convento di sacerdotesse maya. Nel “Cuadrangulo de las Monjas” il motivo del dio Chac è ripetuto in maniera quasi ossessiva nei mascheroni che ornano gli edifici. Signore dell’acqua e della pioggia, era una delle più importanti divinità per i Maya. Un Dio che decideva della sopravvivenza della popolazione, soprattutto a Uxmal dove non esistevano “cenotes” e ci si serviva di apposite cisterne artificiali sotterranee per raccogliere e conservare l’acqua piovana.
Monumenti come giornali illustrati
Ma non solo le sculture, le ornamentazioni in stucco, le elaborate decorazioni in pietra creavano grande effetto: su gran parte degli edifici erano dipinte scene di vita quotidiana e cerimonie religiose, poi c’erano le iscrizioni: eventi storici, astronomici e vicende dinastiche venivano registrati con la prima forma di scrittura fonetica del continente.
Vero capolavoro Puuc è il “Palacio del Gobernador”, che fu residenza dei sovrani della città. Se questo stile dell’architettura maya ha la sua massima realizzazione a Uxmal, anche Kabah con il bellissimo Codz-Pop, quasi interamente rivestito da mascheroni raffiguranti il dio Chac, Sayil con “El Palacio” dall’importante decorazione e ancora Xlapak e Labnà, con il grande arco e il complesso di edifici ornati da mascheroni e altre decorazioni, sono aree archeologiche di notevole interesse lungo la cosiddetta Ruta Puuc.
Questo particolare stile dell’architettura maya, che deriva il nome da quello delle basse colline (“puuc” in maya) che punteggiano la zona a sud di Merida sovrastando l’uniforme pianura yucateca, presenta una decorazione esuberante in pietra, creste traforate che sovrastano la copertura dei templi, fregi dai motivi che si ripetono in modo spesso ossessivo, mascheroni e colonne. Tanto che c’è chi l’ha definito “barocco” maya.
Chichén Itzá, preferita dai turisti
Chichén Itzá non ha la stessa fortuna di Uxmal: a centoventi chilometri a sud-est di Merida e duecento d’autostrada dalla frequentatissima Cancún, è il luogo più visitato della penisola, aggredito dal turismo. Già alle dieci di mattina le rovine sono sovraffollate: l’unico consiglio, qui come a Tulum, è di trovarsi all’ingresso all’orario di apertura del sito.
Chichén ha una storia particolare e alquanto dibattuta: fiorì come tutte le città maya nel periodo Classico, fino al X secolo, poi invece di decadere come le altre, fu probabilmente invasa da una tribù bellicosa, gli Itzaes, che le lasciò splendide costruzioni e il suo secondo nome: Itzá. Da allora e fino al 1200, quando la città fu abbandonata, si ebbe il periodo di massimo splendore; di quest’epoca sono i monumenti più importanti che mescolano elementi maya con altri dell’Altopiano centrale messicano (toltechi) portati dagli invasori. Il “Templo de los Guerreros”, il “Templo de las Mil Columnas”, il “Templo de los Jaguares”, il “Caracol”, il “Tzompantli”.
Un gioco della palla pericoloso
E anche il più grande “juego de pelota” del mondo maya.
Come giocavano alla palla i Maya? Con tutto eccetto mani e piedi: non era proprio un gioco da ragazzi far rimbalzare con anche e gomiti quella “pelota” di gomma che raffigurava il corso del Sole nel cielo. Era la lotta cosmica tra luce e tenebre, un evento sacro dove si scontravano forze solo apparentemente opposte.
Alla fine della partita c’era il sacrificio rituale. Sacrifici umani, che venivano compiuti anche nel grande “Cenote Sagrado”, il più celebre pozzo dello Yucatàn, con i suoi sessanta metri di diametro, che alla città diede l’acqua e il suo stesso nome, che significa “bocca del pozzo”, nel quale veniva adorato con rituali e offerte votive il dio della pioggia Chac.
È dedicato invece al dio Kukulcán il “Castillo”, che è la struttura maggiore e più importante di Chichén Itzá. Lo costruirono in modo che sulla scalinata del lato settentrionale, ad ogni equinozio, si ripetesse lo stesso fenomeno: un gioco di luce e ombra disegna il corpo sinuoso di un rettile che scende verso terra e si conclude nelle grandi teste di serpente alla base della scalinata. Il serpente è il simbolo di Kukulcán, che deve fertilizzare la terra, e in questo modo veniva indicato ai sacerdoti che era tempo di iniziare la semina.
Il “Castillo” è interessante anche per un altro motivo: è la raffigurazione in pietra del calendario maya. Proviamo a contare: l’edificio ha quattro scalinate, su ogni lato novantun gradini; la somma di tutti gradini più quello superiore d’ingresso al tempio, dà come risultato 365, i giorni dell’anno secondo il calendario solare.
Ma la cosa era più complicata di così: a quel calendario se ne combinava un altro, religioso-divinatorio, di duecentosessanta giorni e ci si serviva di un complesso sistema di numerazione che includeva l’uso dello zero. In questo modo i Maya pianificarono i propri insediamenti secondo precisi calcoli astronomici: esiste una relazione imprescindibile tra astronomia e archeologia maya.
Da Tulum, con i “viali bianchi”…
Di Tulum, il sito archeologico più importante della costa, difeso su tre lati da una muraglia, protetto sul quarto da alte falesie, dominato dal “Castillo”, la costruzione più imponente con resti di affreschi nel “Templo de los Frescos”, aggiungeremo soltanto che era solcato da grandi “viali bianchi” pavimentati con lastre di pietra calcarea (sacbé) che si inoltravano nella foresta collegando tra loro le città della regione.
Grazie alla posizione privilegiata sul mar dei Caraibi, Tulum era un porto dall’intensa attività commerciale, importante soprattutto nel secolo che precedette la conquista spagnola.
A centotrenta chilometri da Cancún, Tulum era l’incanto che è tuttora se lo si immagina senza quell’immenso parcheggio all’ingresso del sito, il trenino che porta alle rovine, un’infilata di negozi di souvenir (typically mexican!).Ma a saperla prendere la penisola dello Yucatán, la parte più turistica del paese, riserva grandi sorprese.
…sino a Cobà, nel cuore della foresta
Come Cobà, un sito di intenso fascino appena una cinquantina di chilometri a nord di Tulum. Seducente per la posizione nella fitta foresta che ricopre in parte le costruzioni e per le architetture di quella che fu un’importante e vasta città nel tardo periodo Classico, quando controllava la rotta commerciale dalla costa al cuore della penisola e aveva fitti traffici con località anche molto distanti (fino al Petén, in Guatemala). Rotte unite da un numero straordinario di “sacbé”, il più lungo dei quali (che sarebbe la più lunga strada maya conosciuta) raggiungeva, a cento chilometri di distanza, Yaxunà, non lontano da Chichén Itzà. Domina l’area archeologica immersa nella giungla tropicale l’edificio principale: la piramide di “Nohoch Mul” che con i suoi sette ripiani raggiunge l’impressionante altezza di quarantadue metri. A proposito di innalzamento dei templi verso il cielo.
Fonte: Mondointasca.org 29/01/2007
Autore: Francesca Piana
Cronologia: Arch. Precolombiana