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Mario Zaniboni. LUCY. L’australopiteco noto più antico.

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Quando si vanno a studiare terreni provenienti da un tempo molto lontano, dove si sa o dove si intuisce che ci doveva essere stata qualche presenza umana, spesso capita di trovare di tutto e di più, ma altrettanto spesso sono reperiti oggetti che non si era nemmeno sospettato che potessero esserci.
Un sito archeologico, che si dimostrò di grande importanza per la paleoantropologia, è stato quello studiato negli anni settanta del secolo XX in Etiopia; era il sito di Hadar nella Depressione di Hafar, situata a circa 60 chilometri da Addis Abeba. Le ricerche in quel sito furono iniziate dal paleoantropologo francese Maurice Taieb che, approfondendo gli studi sullo stesso, ebbe la conferma che valeva la pena di cercare di saperne di più. Perciò, invitò tre famosi paleoantropologi a fiancheggiarlo nei lavori necessari: questi erano lo statunitense Donald Johanson, curatore al Cleveland Museum of Natural History, l’inglese Mary Leakey e il francese Yves Coppens. Dopodiché, insieme organizzarono una spedizione, alla quale parteciparono anche quattro americani e sette francesi, che dopo l’estate 1973 cominciò ad esaminare i luoghi di Hadar per approfondirne la conoscenza, con l’intento di trovarvi tracce della presenza umana in un’antichità valutata attorno al 3 o 4 milioni di anni fa.
Verso la fine del 1973, quando ormai si pensava di chiudere il campo di ricerca, per il momento, Johanson trovò l’estremità superiore di una tibia e quella inferiore di un femore, le quali, avvicinate e riconosciuta la stessa appartenenza, dimostrarono che erano appartenute ad un ominide a postura eretta. La loro datazione parlò di 3,4 milioni di anni fa, pertanto erano più antiche dei resti di ominidi rinvenuti fino ad allora. Questo reperimento avvenne in uno strato roccioso alla profondità superiore ai 6o metri, a poco più di due chilometri dal sito in cui, più tardi, si è rinvenuto lo scheletro di Lucy.
L’anno successivo, il gruppo di studiosi si recò nel secondo campo di ricerca, dove rinvenne mandibole sicuramente appartenute a ominidi.
Il 24 novembre 1974, Donald Johanson, durante le sue ricerche, in mezzo al terriccio ed alla roccia frantumata, scorse e recuperò un osso umano, forse appartenente a un braccio; galvanizzato da tale scoperta, continuò gli scavi, ma, questa volta, con particolare attenzione.
Nello stesso tempo, i suoi collaboratori, non molto lontani da lui, trovarono in abbondanza frammenti di ossa. Alla fine, i ricercatori ebbero a disposizione le parti costitutive di almeno il 40% di uno scheletro avente un’anzianità superiore ai tre milioni di anni. Quegli ossi erano parti degli arti, la mandibola, alcuni frammenti di costole, vertebre, del cranio e del bacino; quest’ultimo consentì di capire che si trattava di una femmina.
Alla sera del ritrovamento, i ricercatori, mentre si godevano la cena ed il fresco, decisero di dare un nome a quell’essere che proveniva da tanto lontano nel tempo e, mentre ascoltavano la canzone Lucy in the sky with diamond dei Beatles, decisero che il nome più appropriato sarebbe stato quello di “Lucy”; si trattava del primo ritrovamento dell’ominide australopithecus afarensis (dal nome del territorio di Afar, dove avvenne), abbastanza importante (pur se non decisivo) per comprendere come la specie umana si sia evoluta.
Le ossa a disposizione, pur non essendoci tutte, mancando quelle delle gambe e altre, furono sufficienti per mettere insieme uno scheletro; inoltre, analizzando attentamente quelle del bacino, si giunse all’importante conclusione secondo la quale, già allora, gli ominidi camminavano in posizione eretta con continuità e non solo per brevi tratti di percorso: insomma, un bipede in tutti i sensi.
La statura di Lucy era sul metro e 7 centimetri, un po’ bassa per la sua specie, con un peso corporeo sui 30 chilogrammi o poco più. La dentatura, sicuramente umana, consentiva di mangiare tutto ciò che si poteva trovare, dalla carne ai frutti, dai vegetali agli insetti, dalle lucertole alle radici: pertanto era onnivora. Il cranio era piuttosto piccolo, con una capacità volumetrica compresa fra i 275 e i 500 cm3: caratteristica più scimmiesca che umana; il suo cervello era più grande di quello di uno scimpanzé, pur se di poco. Il viso era prognato, la fronte sfuggente e il naso schiacciato.
Come ricordato, le ossa delle gambe e le pelvi garantivano che era in grado di camminare stando in posizione eretta. Però, sicuramente la sua vita si svolgeva fra il suolo e gli alberi, sui quali si poteva rifugiare per mettersi al sicuro dai predatori e per trascorrere le ore di sonno: in effetti, che si arrampicasse lo dimostrano le sue braccia e le sue mani lunghe.
Questa scoperta ebbe una grande risonanza sul pubblico mondiale in merito all’evoluzione della specie umana, tanto che il nome Lucy divenne molto familiare, anche perché fu l’elemento fondamentale di una mostra itinerante che, per sei anni, esibì lo scheletro ricostituito alle persone incuriosite e interessate, presentandolo come “L’eredità di Lucy: i tesori nascosti dell’Etiopia“. Lucy divenne, così, una celebrità. In Etiopia, le è stato dato il nome di Dinqinesh, che in amarico, la lingua ufficiale locale, significa “Sei meravigliosa”.
E’ parere degli studiosi che, quando è morta, non fosse ancora adulta. Pertanto la causa della sua dipartita, avvenuta in un’area dominata dalle paludi, forse è avvenuta per un malore o una caduta; comunque non è stata uccisa da un animale, perché tutte le sue membra sarebbero state disperse; quindi c’è da ritenere che il suo corpo, integro, sia stato sommerso nel fango, dove si fossilizzò, in attesa che gli studiosi moderni, dopo milioni di anni, lo ritracciassero, offrendo loro una valida testimonianza di quello che erano gli ominidi che vivevano allora.
Riproduzioni dello scheletro sono esposte in tantissimi musei di tutto il mondo, mentre l’originale e tenuto gelosamente conservato ad Addis Abeba, in Etiopia, nel Museo Nazionale dell’Etiopia, dove, però, esposto al pubblico c’è solamente una copia.

Autore: Mario Zaniboni – zamar.22blu@libero.it

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