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Mario Zaniboni. La lampada di Bagdad. Cella galvanica ante litteram?

bagdad

Durante una serie di scavi tenutasi attorno al 1930 o poco più tardi nella località Kuyut Rabbou’a, non lontano da Baghdad, in Iraq, in una tomba furono trovati molti reperti, fra i quali faceva bella mostra di sé un oggetto, databile fra il III secolo a.C. e il III secolo d.C., che il definirlo strano forse è riducente.
Esso consiste in un contenitore di terracotta simile ad una giara, contenente un cilindro di rame, lungo circa 13 centimetri, ottenuto dall’arrotolamento di una sottile lamina, che conteneva al suo interno una barretta di ferro, mantenuta isolata dal cilindro mediante un tappo di asfalto.
Poiché il cilindro non era a tenuta stagna, un liquido costituito, forse, da succo d’uva o di limone oppure di aceto, poteva liberamente entrarvi ed entrare in contatto col ferro. Siccome le parti interne sono abbondantemente corrose, si ritiene che probabilmente si trattasse di un elettrolite.
Inizialmente, nessuno dimostrò un particolare interessamento a questo ritrovamento; solamente nel 1938, l’oggetto fu esaminato attentamente da Wilhelm König (tedesco, austriaco o australiano?) che lo notò nelle raccolte del Museo Nazionale Iracheno, ente per il quale lavorava; era un archeologo dilettante oppure si trattava di un tecnico, un ingegnere? Egli, comunque, giunse ad un’importante conclusione: secondo il suo parere, il ritrovato poteva essere una cella galvanica o voltaica, cioè una cella elettrochimica avente la capacità di trasformare l’energia chimica in elettrica; e, sempre secondo lui, era il mezzo per placcare in oro gli oggetti in argento. Tale ipotesi fu resa pubblica nel 1940 a Berlino, dove egli ritornò. Ma ciò che frena questa idea è l’esiguità della potenza dell’energia elettrica prodotta, che ne limitava l’uso.
Continuando a seguire il ragionamento di König, indicativamente si ha la datazione della sua costruzione: l’oggetto fu realizzato durante il governo dei Parti in Persia e, considerando che fu trovato in un sito archeologico che si riferisce al periodo fra il 250 a.C. e il 224 d.C., quello fornisce la sua età.
Il dottor St. John Simpson, appartenente al dipartimento del Museo Britannico del Vicino Oriente, ritiene invece che il reperto sia più recente, sia perché non si è identificato con troppa attenzione il sito di ritrovamento ed il suo contesto, sia perché lo stile della terracotta corrisponde a quello sasanide, che è il successivo periodo e che va dal 224 al 640 d.C.
Il ferro ed il rame costituiscono una coppia elettrochimica, tanto che, se entrano in contatto con un elettrolita, si evidenzia una differenza di potenziale che può essere misurato in volt. Ed è proprio stato il ritrovamento di oggetti in argento ricoperti da un velo d’oro, che ha indotto König a farlo giungere a quel ragionamento. Infatti, lui pubblicò un libretto in cui espresse la sua idea che il manufatto fosse una cella galvanica che serviva per placcare oggetti d’oro.
Nell’ultimo dopoguerra, Willard F.M. Gray, che si appassionò al problema, ne costruì una copia e fu in grado di dimostrare che, usando il succo d’uva, si produceva corrente elettrica; e non solo, perché con benzochinone (sostanza prodotta da alcuni coleotteri e artropodi) e aceto, il potenziale aumentava.
Alla fine del ‘900, Arne Eggebrecht, un egittologo, ne costruì una riproduzione utilizzando succo d’uva, ottenendo 0,5 volt di elettricità; poco, se si vuole, ma sufficiente per placcare una statuetta.
Ne fece una anche l’italiano Roberto Volterri, che usò limone; egli era del parere che mettendone insieme una certa serie si potesse ottenere un buon risultato.
Comunque, non tutti concordarono sulla possibilità di placcare d’oro gli oggetti d’argento, mentre altri formularono altre ipotesi, che non ebbero i riscontri attendibili al cento per cento.
E poi, a parte il fatto che certi elementi indispensabili mancavano, per cui il dubbio che fosse una cella galvanica resta integro, qualora fosse stata prodotta energia elettrica, a cosa sarebbe servita, se non esistevano dispositivi da far funzionare?
Pertanto, sembra che la conclusione più logica sia che la Batteria di Bagdad fosse utilizzata solamente per riti o altra funzione similare, anche perché essendoci una corrente elettrica, bassa finché si vuole, serviva tuttavia da far riconoscere ai fedeli la presenza di una divinità.

Autore: Mario Zaniboni – zamar.22blu@libero.it

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