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Mario Zaniboni. La fibula prenestina: autentica o falsa?

fibula prenestina

Nell’antichità, le fibule erano delle spille di sicurezza che servivano per tenere a posto i vestiti indossati. Una di queste, la Fibula Prenestina (Fibula Praenestina) è stata trovata nel 1876 a Palestrina (l’antica città di Preneste), nella tomba Bernardini, scoperta nel 1851 ed esplorata a partire dal 1871.
fibula prenestinaSi tratta di un gioiello d’oro dalla forma che è chiamata “a drago”, lungo 10,7 centimetri e del peso di 36,2 grammi, che porta inciso uno scritto in latino arcaico. Questo, steso da destra verso sinistra, è il seguente: MANIOS MĒD FHE HAKED NVMASIŌI, che diventa MANIVS MĒ FECIT NVMERIŌ in latino classico e «Manio mi ha fatto per Numerio» in italiano; l’importanza dello scritto sta nel fatto che è la più antica testimonianza di quella lingua giunta fino ad oggi.
La glottologia offre gli elementi necessari per comprendere se lo scritto sia antico e a lei si lascia il compito di appurarlo. Purtroppo, non si sa nulla dell’orefice che l’ha costruita, ed è un vero peccato!
Il manufatto fu inserito nell’elenco degli oggetti ritrovati in quella tomba dove restò fino al 1919, cioè fino a quando la conoscenza incerta sulla sua origine non la fece ritirare.
Gli scavi furono diretti da Giuseppe Finelli, che seguì nuove procedure di carattere stratigrafico e tali da rendere i reperti derivanti dai lavori adatti alla loro esposizione nei saloni museali. Del resto, per la sua capacità, nel 1876 fu fondato il Museo Preistorico-Etnografico “Luigi Pigorini”, dove oggi è esposta la fibula; da notare che, nel 1889, in quel museo ci fu l’ingresso, importantissimo e prestigioso, della collezione etrusca di Villa Giulia.
Però, della fibula si parlò solamente dopo il 1887, con la sua presentazione, per la prima volta da parte dell’archeologo Wolfgang Helby, fatta all’Istituto Archeologico Germanico di Roma (Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts, Römische Abteilung, cioè “Messaggi dell’Istituto Archeologico Tedesco, Dipartimento di Roma”). Egli raccontò che essa era stata acquistata da un amico, che non aveva saputo dirgli da quale sito venisse.
E, agli albori del XX secolo, sorsero i primi dubbi in merito all’autenticità della fibula ed immediatamente si moltiplicarono polemiche in merito a ciò, sollevate dagli archeologi più illustri, al di sopra di ogni sospetto, fra i quali si può ricordare Margherita Guarducci, che era pure epigrafista.
I dubbi erano diversi: innanzitutto, non era disponibile una valida documentazione sul sito del ritrovamento, poi erano state rilevate atipicità di carattere epigrafico e, infine, da non sottacere, le sospette amicizia e familiarità di Helbig con l’antiquario Francesco Martinetti, famoso per la sua riconosciuta attività quale falsario.
In ogni modo, vero o falsa che fosse, la fibula comparve spesso fra i reperti dell’antichità romana e si era dimostrata tanto interessante da essere esposta, nel 1977, in una mostra riguardante la nascita dell’Urbe, al Petit Palais di Parigi. E il catalogo la mostrava in due fotografie, confermando che proveniva dalla tomba Bernardini.
Bisogna ricordare che, in quel periodo, era in atto una vera e propria corsa alla ricerca di ritrovamenti archeologici da offrire ai turisti, soprattutto quelli stranieri, magari dando loro indicazioni di siti famosi da cui erano stati estratti, vero o falso che fosse. Spesso si trattava di persone ignoranti in merito ai reperti antichi che, con il loro abbondante denaro in tasca, non esitavano ad acquistare manufatti, senza preoccuparsi troppo se fossero pezzi autentici o rifacimenti. E, con tali presupposti, non mancavano, anzi fiorivano, ricercatori “fai da te”, che si improvvisavano archeologi e scopritori di tesori del passato e che, senza scrupoli, mettevano sul mercato antiquario romano pezzi falsificati o copie di pezzi autentici, fatte il giorno prima; i laboratori, dove i falsi vedevano la luce, erano nelle vicinanze di quelli dai quali uscivano quelli veri. E fra costoro era il Martinetti, di cui si è detto più sopra, intagliatore di pietre preziose, definito da Helby “il più onesto di tutti”.
Sembra quasi di sentire Amleto con il suo “essere o non essere”, quando si è nel dubbio e ci si chiede se il reperto sia “vero o non vero”. Giacono Lignana, glottologo di fama, che analizzò l’iscrizione della fibula, giunse alla conclusione che essa era indubbiamente un falso. Ci fu, poi, il paleontologo Giovanni Pinza che, per stabilire se essa fosse autentica o falsa, la confrontò con altre provenienti da scavi eseguiti a Volterra e Chiusi e, dopo essersi consultato con l’orefice Augusto Castellani, stabilì che era un falso.
In verità, si è visto che la fibula rinvenuta a Clusium (la Chiusi di oggi) è molto simile a quella di cui si parla, come del resto, ne sono state trovate altre dello stesso modello in Etruria, nel Lazio ed in Campania. E lo stesso disse il glottologo Vittore Pisani il quale, esaminando lo scritto, ritenne assolutamente che non poteva essere l’opera di una persona del VII secolo a.C. Margherita Guarducci, epigrafista oltreché archeologa, bocciò la fibula come autentica, definendola un falso proveniente dalla collaborazione fra l’Helby e Francesco Martinetti, richiamato più sopra. Di tutti coloro che ritennero la fibula un prodotto fatto “ieri l’altro”, essa fu la più accesa sostenitrice della sua falsità e con quel parere negativo restarono tutti sino a quando il problema fu affrontato con determinazione.
Ci fu l’intervento dei chimici Pico Cellini e Giulio Devoto che analizzarono la fibula al microscopio a fluorescenza, che ne confermò la falsità, perché si riscontrò la presenza di acqua ragia usata per invecchiare l’oro e, inoltre, furono notati cambiamenti nella doratura al mercurio, mentre l’oro non aveva le caratteristiche di quello che ha dormito per secoli in tombe e, al contrario, sembrava che fosse stato fuso il giorno prima.
Alzò il pollice verso l’alto, invece, l’etruscologo Giovanni Colonna, che fece presente come la scrittura non poteva essere tale, in quanto quel tipo era stato scoperto solamente nel 1899, perciò il falsario non avrebbe potuto imitarla. E, sempre a favore dell’autenticità della fibula, furono i glottologi Massimino Poetto e Guido Facchetti che, nel 2009, indagando filologicamente, notarono come l’iscrizione della fibula non potesse essere che autentica, giacché era molto simile a quella riportata su un vaso corinzio in cui era richiamato il nome Numesiana assimilabile al Numaisoi della fibula.
L’oggetto fu sottoposto ad analisi eseguite da Daniela Ferro dell’Istituto dei Materiali Nanostrutturali (ISMN) del CNR e del restauratore e docente Edilberto Formigli all’Università “La Sapienza” di Roma ed all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze. Lei, correttamente, partì dal presupposto che le indagini eseguite su un reperto archeologico non devono essere mai invasive e tanto meno distruttive, per cui per quelle fatte sulla superficie della fibula si ricorse all’uso di un microscopio elettronico con lo spettrometro ai raggi x in dispersione di energia.
La dottoressa Ferro espose i risultati delle sue analisi in un convegno al quale parteciparono importanti studiosi di diverse discipline. Fece presente che le varie parti della fibula erano di leghe d’oro diverse, più povere d’oro e ricche d’argento nei punti in cui occorreva una maggiore resistenza; che la ricristallizzazione del materiale individuata poteva avvenire solamente dopo un lungo periodo di tempo, facendo saltare l’ipotesi che il reperto fosse stato prodotto un secolo prima o giù di lì; che gli acidi utilizzati in precedenza erano sullo scritto, non nello scritto, il che significa che erano stati usati per togliere lo sporco sullo stesso, per consentirne la lettura; che la fibula, in un passato lontano, fu riparata, usando una lamina d’oro per nascondere una piccola frattura esistente sulla sua staffa. E tutto questo ha fatto concludere che il manufatto vide la luce nel VII secolo a.C., quando le tecniche in possesso degli orefici etruschi già lo permettevano.
Gli astanti non ebbero nulla da eccepire, Si possono ricordare il glottologo Aldo Prosdocimi, che in precedenza propendeva per la falsità della fibula e l’archeologo Filippo Delpino, che la pensava come lui. Superato questo scoglio, si passò a discutere sull’iscrizione.
Se si vuole mettere un fatto in evidenza, come qualcuno ha puntualizzato, si deve ricordare che fra i presenti alla conferenza erano archeologi, glottologi, storici, ma non c’erano chimici.
Chissà se qualcuno di questi ultimi vorrà aggiungere qualcosa in merito alla fibula ed alla conclusione alla quale si è giunti; in ogni modo, ora godiamocela e, se in futuro ci saranno delle sorprese, riprenderemo serenamente le discussioni in merito alla sua autenticità.

Autore: Mario Zaniboni – zamar.22blu@libero.it

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