Nei tempi antichi era in uso nelle famiglie un recipiente cilindrico, denominato “cista”, normalmente fornito di coperchio, destinato a contenere prodotti cosmetici o di abbigliamento. Ma era pure utilizzato in certi culti e, allora, poteva diventare il contenitore dei serpenti necessari per effettuare i riti per la o le divinità.
Fra i produttori di ciste, gli Etruschi furono quelli che ne costruirono il maggior numero a partire dal IV o III secolo a.C., utilizzando diversi materiali, che potevano essere legno, cuoio, vimini intrecciati, metallo: quest’ultimo era il preferito. Infatti, molte ciste furono costruite in metallo, finemente ornate con figure e fornite di coperchio, che per presa di solito aveva delle piccole sculture, il cui aspetto ricordava le magnifiche pitture greche che, purtroppo, non sono giunte fino a noi.
Uno dei centri più importanti per la costruzione di questi oggetti fu Preneste (l’attuale Palestrina), una città del Lazio di antica fondazione, che produsse un’abbondante quantità di ciste, fra le quali emerse la cosiddetta “Cista Ficoroni”, forse l’esemplare più famoso dell’intera produzione. Si tratta di un contenitore eseguito con cura e dotato di un coperchio la cui presa è formata da tre piccole sculture. Questa cista emerge fra tutte quelle prodotte, perché risulta essere quella con la migliore decorazione ed è ben conservata. E’ il risultato del connubio fra le culture etrusca, greca e laziale ed è datata tra il 350 e il 320 a.C.
Il suo nome è dovuto a Francesco De’ Ficoroni, che la comprò nel 1738, insieme con uno specchio, da due operai, che avevano trovati quegli oggetti in un sito archeologico fra Lugrano e Preneste; questa è stata la prima cista recuperata nella necropoli della Colombella.
De’ Ficoroni era un antiquario che raccoglieva oggetti antichi, acquistandoli da persone in difficoltà finanziarie strozzando il prezzo, e che sistemava in una bottega che divenne un importante e ricco museo personale. E non li vendeva, in quanto le sue condizioni erano agiate e, pertanto, se li godeva, ammirandoli, toccandoli, studiandoli, ecc.
Il tutto fu raccolto nella sua pubblicazione del 1745 dal titolo “Memorie ritrovate nel territorio della prima e della seconda città di Labico”. Era una persona colta, profonda nella conoscenza del latino e che se la cavava abbastanza bene in quella del greco. Come storico, era in contatto con importanti personaggi della sua epoca ed era accolto nelle accademie sia francesi sia inglesi. Quando si rese conto che la sua vita era ormai al termine, fece un atto molto significativo, donando la sua collezione, fra cui la cista, al Museo Kircheriano (Wunderkammer), che non era altro che una raccolta di reperti dell’antichità fondata dal padre gesuita, Athanasius Kircher, nel Collegio Romano nel 1651.
Purtroppo, tutto il materiale raccolto fu via via disperso e meno male che la Cista Ficoroni non fece la stessa triste fine: infatti, nel 1914 fu ospitata nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma, dove può essere tuttora ammirata.
La cista, più che per le decorazioni del coperchio, del corpo, per le tre piccole sculture del coperchio e per i tre piedini, è importante per la scritta in latino classico incisa alla base delle tre figurine:
DINDIA MACOLNIA FILIAE DEDIT / NOVIUS PLAUTIUS ME ROMAE FECIT
“Dindia Macolnia (mi) donò alla figlia / Novio Plauzio mi fece a Roma”.
Le ragioni che portarono alla sua fabbricazione non sono note. Comunque, pare che, nel IV secolo a.C., la matrona prenestina Dindia Macolnia abbia voluto che fosse un dono per la dote della figlia e pertanto la cista era stata commissionata ad un artigiano, forse di origine campana.
Si tratta di un contenitore cilindrico, di buone dimensioni, con la sua altezza di 74 centimetri e il diametro di 35. Il materiale è bronzo, cesellato da incisioni artisticamente perfette, che ornano sia il corpo sia il coperchio, sul quale ultimo si elevano tre figurette (Dioniso e due satiri) unite dalle braccia, che fungono da manico, mentre sul fondo ci sono tre piedini cesellati, rappresentanti Ercole, Iolao e Eros. Interessanti le incisioni sul coperchio, dove sono tre ornamenti concentrici, in cui sono, un racemo a forma di croce, due scene con assalto da parte di un leone e di un grifo, ed una scena di caccia al cinghiale di Calidone.
Il corpo è decorato con fasce orizzontali, di cui quella centrale è più larga.
La fascia superiore presenta una serie di palmette e fiori di loto in andata e, al di sotto, la stessa di ritorno, rovesciata; queste servono a ornare la testa di una piccola Gorgone. In quella inferiore, la palmette ed i fiori di loto, doppiamente bordati, sono alternati a sfingi.
Nella seconda parte sono alcuni Argonauti che si dissetano ad una fonte, uno che si allena al pugilato ed un Papposileno. Anfore completano la rappresentazione.
Infine, nella terza parte è la prua della nave Argo con marinai al lavoro.
Più importante è la fascia centrale, che ritrae una scena mitologica relativa al mito degli Argonauti nella quale Polluce gode della vittoria su Amico, re del popolo dei Bebrici della Bitinia. Nella mitololgia si parla dello sbarco degli Argonauti allo scopo di trovare rifornimenti, quando furono affrontati dal re, che non sopportava la presenza di forestieri e si divertiva ad ucciderli con la forza erculea dei suoi pugni. Ma questa volta le cose non andarono, come al solito, secondo le sue intenzioni, giacché il dioscuro Polluce lo vinse e gli risparmiò la vita solamente dopo avere ricevuta la formale promessa non solo di non aggredire, bensì anche di rispettare chi sbarcava nella sua isola, chiunque fosse. Il fatto è narrato in tre sezioni, separate fra di loro, ma con in comune lo sfondo roccioso. Nella prima, c’è la scena nella quale Polluce lega Amico ad un albero, sotto lo sguardo vigile della dea Atena. C’è la presenza di un piccolo schiavo, mentre la dea della vittoria Nike, in volo, incorona il vincitore. Due coppie di persone fanno da cornice alla scena. Nella seconda parte sono alcuni Argonauti che si dissetano ad una fonte, uno che si allena al pugilato ed un Papposileno. Anfore completano la rappresentazione.
Infine, nella terza parte è la prua della nave Argo con marinai al lavoro.
Le figure sono tratteggiate con abilità e ben costruite, mettendo in evidenza la capacità artistica del loro autore.
Si tratta di un’opera di buona fattura, che trova la giusta ammirazione da parte degli amanti delle antichità e di coloro che apprezzano a fondo gli oggetti che escono dalle mani di esperti e abili artisti.
Autore: Mario Zaniboni – zamar.22blu@libero.it