Gli archeologi non sono mai fermi: le loro ricerche su ciò che ci ha preceduti fin dal più lontano passato è fonte di studi e di approfondimenti affrontati con costanza, coraggio e determinazione. Ma talora qualcuno di loro (e non tutti però, perché sarebbe troppo bello) ha la fortuna di incappare in qualcosa di inaspettato, e inaspettabile, tanto da mettere in discussione le narrazioni relative che, fino ad allora, erano state assemblate ed accettate con il consenso di tutti, senza “se” e senza “ma”.
E uno di quelli che hanno trovato l’oggetto talmente eccezionale da scombussolare quanto era stato ritenuto vero fino a ieri, è stato l’archeologo statunitense William J. Meister, durante una serie di scavi puntati al ritrovamento di fossili per arricchire la sua collezione a Antilope Spring, non lontano da Delta nello Stato dell’Utah.
Stava cercando nel suolo insieme con la moglie, le sue due figlie, Francis Shape e la sua signora. Insieme ebbero fortuna, giacché trovarono diversi fossili interessanti, ma questi passarono in secondo piano quando lui, con un colpo ben azzeccato con il martello da geologo, aprì in due una roccia piatta delle spessore di 5 centimetri ed ebbe la sorpresa di trovare all’interno ciò che nemmeno la sua più fervida fantasia gli avrebbe consentito di immaginare: sulla prima faccia era l’impronta di un piede umano e sulla seconda era l’altra parte dell’impronta, oltreché un piccolo trilobite.
Naturalmente, ciò lasciò lui e i suoi compagni estremamente esterrefatti per una ragione molto semplice: se l’impronta e l’animaletto erano contemporanei (cioè se il piede umano avesse calpestato il trilobite), significava che un essere umano era vissuto nel periodo Cambriano quando nel mare vivevano solamente trilobiti, appunto, spugne, brachiopodi, onicofori, e sulla terraferma erano presenti alghe, piccoli funghi, licheni.
Tornando all’impronta, una ragione in più di meravigliarsi era il fatto che l’impronta (lunga 26,03 centimetri e larga 8,9) mostrava chiaramente che il piede calzava un sandalo e che si vedeva la differenza dovuta alla presenza di un tacco vero e proprio, come nelle calzature umane da quando l’uomo ha iniziato a proteggere i suoi piedi.
Naturalmente, Meister rivelò quanto aveva trovato a geologi e paleontologi, ma non gli riuscì a convincerli ad approfondire la conoscenza del ritrovamento, che lo ritennero un tentativo infelice di rendersi importante nel settore delle ricerche archeologiche.
Egli non mollò, perché era convinto che la sua impronta non fosse una bufala; infatti, pubblicò la notizia sul giornale locale The Desert News e dopo qualche tempo fu contattato dalle persone giuste, che, invece di deriderlo, ritennero che nella faccenda esistesse un fondo di verità.
Infatti, il 4 luglio 1968, Meister condusse il dottor Clarence Coombs del Columbia Union College e il geologo Maurice Carlisle dell’Università del Colorado nel sito del ritrovamento. Carlisle, dopo un paio d’ore di faticose escavazioni, individuò uno strato fangoso, che era la dimostrazione che, nel passato lontano, quella formazione era sulla superficie del suolo e pertanto nelle condizioni ideali per trattenere con sicurezza orme che sarebbero divenute fossili.
Lo strato fangoso, che da tantissimo tempo aveva lasciata la luce del sole, risaliva al periodo fra i 590 e i 550 milioni di anni fa (secondo altri, fra i 600 e i 390, comunque sempre tanti, anzi tantissimi). Naturalmente, tali numeri misero in subbuglio e seria difficoltà quel mondo accademico, che viveva su quanto aveva studiato e faticosamente ricostruito, perché si rendeva conto che tutto il suo lavoro per mettere in ordine le notizie che provenivano dal mondo del passato, si sarebbe trovato in difficoltà, giacché molta parte avrebbe dovuto essere ripresa, rivista e ridimensionata.
I detrattori, intanto, non mancavano. Per esempio, un geologo della Brigham Young University sbeffeggiò il fossile, definendolo semplicemente la traccia di un fenomeno erosivo, mentre un altro disse, con convinzione, che si trattava di un falso bello e buono. In tal modo, la faccenda fu liquidata, senza nemmeno tentare di approfondirne la conoscenza.
Ma, come capita spesso, c’è sempre qualcuno che non demorde mai e non solo non accetta le convinzioni di altri, ma anche tenta di andare più oltre. Ed infatti, due ricercatori statunitensi, Michael A. Cremo e Richard L. Thompson, hanno fatto esami al computer dell’impronta, giungendo alla conclusione che era corrispondente a quella lasciata nel fango da una scarpa moderna, ma che, comunque, era autentica ed apparteneva all’epoca cambriana senz’ombra di dubbio; tutto ciò anche se la comunità scientifica lo negava, però senza nessun elemento chiarificatore, essendosi sempre rifiutata di esaminarla.
Quindi, nel Cambriano, un essere umano aveva lasciato nel fango quell’impronta. I due studiosi aggiunsero, fra l’altro, che se non si trattava dell’impronta di un essere umano terrestre, era sempre un segno lasciato da qualche extraterrestre, magari uno di quelli che nella Bibbia si trova che erano sbarcati sul nostro Pianeta: insomma, erano segni lasciati da un vivente, chiunque fosse, e non dovuti ad un qualche fenomeno naturale.
In conclusione, ognuno resta nelle sue posizioni, e non resta che stare alla finestra ed osservare ciò che le scoperte aggiungono a quanto l’uomo moderno sa, o ritiene di sapere, a proposito di ciò che si è avverato nel passato, con speranza che, finalmente, si trovi qualcosa che chiarisca fino in fondo non solo questo caso, ma anche tutti quelli che turbano i pensieri degli studiosi.
Autore: Mario Zaniboni – zamar.22blu@libero.it