Il Cratere di Orvieto è uno stupendo manufatto rinvenuto a Orvieto, appunto, che ora fa bella mostra di sé al Louvre di Parigi. Si ritiene che il suo costruttore sia stato il Pittore dei Niobidi, nome attribuito ad un ceramografo attico, attivo indicativamente fra il 470 e il 445 a.C., ritenuto allievo del Pittore di Berlino, un ceramografo attico che lavorava ad Atene.
Questo nome gli è stato assegnato dall’archeologo britannico John Davidson Beazley, del XX secolo, studioso delle antichità classiche e specialista nella ceramografia classica; inoltre, il Pittore dei Niobidi fu maestro di Polignoto di Taso.
Al Pittore dei Niobidi è stata attribuita la paternità di circa 130 esemplari, quasi sempre di grandi dimensioni e soprattutto a forma di crateri e volute.
Il vaso è di interessanti dimensioni, con i suoi 54 centimetri di altezza e 56 di larghezza; i molteplici personaggi raffigurati sono distribuiti su diversi livelli.
Ciò che caratterizza questa opera è l’abbondanza delle figure che la istoriano. Su una faccia, sono raffigurati Eracle e Athena con gli Argonauti, forse durante una sosta durante la spedizione a Lemnos; tra i vari personaggi si riconoscono Aiace, Teseo, Pirito (re dei Lapiti di Larissa in Tessaglia e amico di Teseo). Sono bene evidenziati gli scudi, oltreché armi, quali archi, frecce, lance.
Sull’altra faccia è riportato un episodio relativo a Niobe, donna mortale, che fu punita per aver formulato il parere secondo il quale i suoi figli non avevano nulla di inferiore a quelli di Latona, id est ad Apollo e Artemide. Da qui, la conseguente strage dei Niobidi, cioè dei figli di Anfione e Niobe.
Al centro, i due gemelli divini: Artemide con un lungo peplo, mentre estrae una freccia dalla faretra, e Apollo, nudo e con una corona d’alloro sul capo, che scocca un dardo verso uno dei Niobidi. Intorno, sono quattro dei figli di Niobe: a sinistra, è un giovane che cerca di estrarre la freccia che l’ha colpito, poi si vedono una ragazza ed un ragazzo entrambi morti e, ancora, un giovane colpito da un dardo alla schiena in cerca di aiuto.
Questa scena è più viva di quella riportata sull’altro lato del cratere; forse difetta il collegamento fra i vari settori, però le presentazioni dimostrano una buona capacità artistica dell’autore nel raffigurare i corpi ed i loro atteggiamenti con naturalezza.
Considerando che il suolo è accidentato e c’è la presenza di un albero malconcio, qualcuno ha ritenuto che sia rappresentato il monte Citerone, non lontano da Tebe che, nella mitologia greca, è il luogo della morte dei figli maschi.
Comunque, un’opera bella e dignitosa che merita l’attenzione e l’ammirazione del visitatore amante dell’arte antica.
Autore: Mario zaniboni – zamar.22blu@libero.it