Un oggetto di origine celtica, che è stato chiamato “calderone”, ma che si sarebbe potuto definire in altra maniera per la forma che ha, cioè di un grande recipiente senza coperchio, è un reperto archeologico trovato a pezzi in mezzo a un deposito di torba.
Come oggetto non è una novità, nel senso che già dall’età del bronzo sono stati recuperati calderoni che erano di uso domestico sia nel nord dell’Europa sia nelle isole britanniche e che hanno continuato a essere costruiti ancora nel Medioevo, soprattutto per uso casalingo, quali recipienti usati per preparare il cibo o per conservarlo nel tempo e, non è da escludere, per riti o funzioni cerimoniali e religiose; non è detto che non fossero usati solamente in particolari occasioni, nelle festività, per esempio, e solo da personaggi autorevoli; in ogni modo, erano un segno di distinzione e di prestigio all’interno della società.
Fu trovato per caso, il 28 maggio 1891, da un ragazzo danese, di nome Jens Sørensen, che stava scavando da una torbiera nella palude posta nei dintorni di Rævemose, località di Gundestrup nell’Himmerland della regione Jutlald nel nord del paese, il materiale che, una volta essiccato, sarebbe servito quale combustibile per le necessità di casa.
Durante il suo lavoro, a un certo momento, la pala dalla forma caratteristica per estrarre le zolle, che si riscontra tutt’oggi dove ancora si escava torba, si rifiutò di andare avanti, avendo incontrato un ostacolo; sorpreso, Jens volle togliere l’ostacolo con le mani e si trovò fra le dita una lamina a forma circolare e, allargando la fossa, ne rinvenne delle altre; alla fine ne aveva fatto un mucchietto di 13. Naturalmente, Jens, incuriosito, pulì gli oggetti dalla torba e, quando vide che erano tutte ricoperte da decorazioni in rilievo, trasecolò: ma che ci fanno qui queste lamine di metallo, così ben riposte l’una sulle altre e così ben decorate con figure umane, di animali e di altro ancora?
Non tutti sono d’accordo che sia stato Jens da solo a rinvenire il manufatto: infatti, stando a un’altra fonte, sembra che fossero diversi i raccoglitori di torba presenti alla scoperta, tanto che sarebbero nate antipatiche discussioni in merito a come suddividere l’eventuale ricompensa riconosciuta dal governo danese che ne era proprietario, giacché, come succede in tutto il mondo, lo stato lo è di tutti i reperti archeologici trovati sul suo suolo.
Non viene descritto come le lamine finissero, il 2 giugno 1891, nelle mani di Sophus Müller, archeologo e ispettore del Museo Oldnordisk di Copenaghen. Forse qualcuno ha consigliato lo scopritore o gli scopritori a rivolgersi a chi, addentro all’archeologia, avrebbe potuto dare qualche chiarimento; ma è più probabile che qualche furbetto abbia dato una piccola mancia a chi lo possedeva e si sia rivolto di persona a chi se ne intendeva.
Comunque, un volta che ebbe in mano i pezzi del manufatto, preso dall’euforia per avere a disposizione una tale bellezza, si mise subito al lavoro, facendone innanzitutto un’analisi chimica dalla quale risultò che il metallo era argento, che per l’ornamentazione era stato usato oro e che, per tenere uniti i pezzi, si era ricorso allo stagno, mentre gli occhi erano realizzati in vetro; il vetro, sottoposto ad analisi, ha consentito di ritenere che sia stato prodotto nel periodo compreso fra il II secolo a.C. e il I d.C.
L’argento fu prodotto attraverso la coppellazione, cioè per raffinazione di piombo argentifero (probabilmente galena). Le lamine sono il frutto della fusione a forma di strati piatti, che poi sono stati lavorati a martello fino a ottenere lo spessore richiesto e, quindi, sbalzati a rilievo per formare le figure previste; alla fine, escluso la lamina del fondo, le lamine per costruire il contorno furono opportunamente piegate e quindi saldate insieme e quindi fissate al fondo. Le lavorazioni compresero le necessarie temprature del materiale.
Esami approfonditi hanno dimostrato che le lamine non sono contemporanee e che sono state realizzate da argentieri diversi, anche per stile, come dimostra la differenza esistente fra la finitura delle lamine esterne e quelle interne; forse sono state realizzate in tempi successivi e qualcuno pensa addirittura a secoli di distanza. Inoltre, il calderone presenta evidenti interventi di riparazioni di qualità abbastanza scadente, il che significa che è stato a lungo usato.
Il trovarsi fra le mani un pacchetto di lamine istoriate fu un invito per Müller di tentare di metterle insieme. Egli, per posizionare le sette lamine, di forma vagamente quadrata di circa 25,5 cm di lato, prese come riferimento tracce della saldatura e resti di punzonatura. Quindi, mettendo di seguito lamine con figure femminili e maschili alternativamente, e supponendo che il pannello mancante (l’ottavo) riportasse figure femminili, completò il contorno del recipiente, inserendo poi le quattro lamine interne.
La parte esterna, contrariamente a quanto dovrebbe essere, risulta avere una circonferenza inferiore a quella della parte interna, per cui, si ribadisce che si deve ammettere che manchi quell’ottava lamina mai trovata e che forse mancava in partenza, quando cioè il pacco di lamine fu sepolto nella torba.
Alla fine, il manufatto si rivelò come un grande vaso o recipiente, chiamato poi calderone, del diametro di 69 centimetri e alto 42, del peso di 9 chilogrammi.
Come capita di solito, anche in questo caso, gli studiosi si schierarono su posizioni diverse. Ci fu, per esempio, il parere di Timothy Taylor, che riteneva che la ricostruzione non poteva limitarsi all’esame di ciò che restava della saldatura e, per di più, era dell’avviso che in origine fra le lamine ci fosse uno spazio libero di un paio di centimetri. Garrett Olmsted, invece, non fu d’accordo sull’interpretazione del significato dato alle illustrazioni da Müller: ma alla fine il calderone è rimasto come lui l’ha ricomposto.
Stando al parere di Müller, non solo il calderone, quando fu seppellito nella torba, non era nuovo, considerati i caratteristici segni di un oggetto che è stato usato, ma anche che con ogni probabilità lo fu dopo essere stato fatto a pezzi applicando sforzi notevoli o usando attrezzi vari e che il suo seppellimento nella palude di torba aveva il significato di offerta agli déi. Se questa fosse la verità, significherebbe che la lamina mancante era stata perduta in precedenza, perché, con buona probabilità, se fosse stata nella torba, pure quella sarebbe stata rinvenuta man mano questa era escavata.
E non ci furono dubbi sull’uso cui era stato destinato: era troppo prezioso per essere utilizzato come se si fosse trattato di una vasca normale, facente parte delle attrezzature al servizio di una famiglia: e infatti, l’ipotesi più accreditata è che il calderone sia stato costruito a scopi religiosi o rituali, magari sacrificali, per attirare l’attenzione benevola degli déi sui raccolti agricoli e sui nascituri.
Gli studi dell’ispettore furono seguiti da quelli di altri studiosi, che si erano interessati all’origine delle lamine.
Le conclusioni furono abbastanza controverse, però, in linea di massima, si può ritenere accettabile quanto di seguito riportato. Si parte dal presupposto che il calderone non sia nato in Danimarca, ma che provenga da artigiani celtici della Gallia o traci, o anche misti, essendo presenti sullo stesso elementi caratteristici appartenenti a entrambe le etnie, anche perché ci fu un momento storico in cui i due popoli erano pressoché conviventi. E poi, forse, è stato portato dai Cimbri, un popolo che, dopo una pesante batosta subita nel 101 a.C. combattendo contro i Romani, si era spostato più verso nord, esattamente nell’Hinterland, dove il calderone è stato trovato.
Comunque, la datazione resta sempre imprecisa, giacché, mentre ci sono coloro che ritengono che sia stato costruito nel III secolo a.C, l’analisi al radiocarbonio ha spostata la data a seicento anni più tardi, vale a dire al III secolo d.C. Del resto, altro elemento indicativo è il risultato delle analisi, che ha datata la produzione del vetro servito per formare gli occhi fra il II e il III secolo d.C.
Ma qual è l’eccezionalità delle raffigurazioni in rilievo riscontrate sui vari pannelli? Vediamole attentamente una alla volta.
Le figure che adornano il calderone sembra accertato che facciano riferimento agli déi nordici, celti o traci, il cui riconoscimento non ha portato a risultati conclusivi, tanto che il tentativo di interpretarle ha fatto separare gli studiosi in due correnti: in una sono coloro che ritengono che ci sia la presenza del dio dalle corna di cervo, Cernunnos, delle mitologie celtica o gallica, mentre nell’altra si trovano quelli che ritengono che si faccia riferimento alla mitologia irlandese, per cui il personaggio sarebbe Cù Chulainn.
Partendo dal pannello di fondo, questo è di forma rotonda e forse fu utilizzato per chiudere un falla in quello della dimensione giusta; qui, è rappresentato un povero toro cui erano state tagliate le corna, che occupa quasi interamente la scena. E’ appoggiato al suolo su un fianco e alza faticosamente il capo, forse tentando, con un ultimo sforzo, di alzarsi sulle zampe, ma senza riuscirvi. Presumibilmente era stato abbattuto per un sacrificio ed era alla fine della sua agonia, data la presenza minacciosa di una donna armata di spada nella parte superiore. Tre cani, di cui uno probabilmente morto, sono presenti. La realizzazione della figura può richiamare l’uso che si sarebbe potuto fare del calderone, cioè quello di raccogliere il sangue dell’animale morente durante un rito sacrificale.
Per quanto riguarda il contorno del calderone, era formato da due serie di lamine, una esterna costituita da lamine quadrate e una interna dove le lamine erano rettangolari. Gli approfonditi studi effettuati sui reperti hanno fatto concludere che l’esecuzione dell’opera è avvenuta nel corso di lungo tempo, forse di diversi secoli, e che le due parti sono state eseguite da diversi argentieri, essendo molto diversa la qualità; infatti, si è riscontrata una notevole differenza esecutiva della fine decorazione delle lamine interne nei confronti di quella delle lamine esterne.
L’esterno del calderone doveva essere ornato di 8 lamine quasi quadrate (25,5 cm x 26 cm circa), di cui solo 7 ci sono pervenute: la placca mancante potrebbe corrispondere a una quarta divinità femminile.
Lamina esterna 1 – Una figura maschile con copricapo, lungi baffi e una barba divisa in due da due trecce, ha le braccia alzate e con le mani solleva due piccole figure che, a loro volta, sostengono due animali con la mano libera. Sotto loro, a sinistra un cane e a destra un cavallo alato.
Lamina esterna 2 – Figura femminile con tripla treccia e collare avente da una parte un uomo barbuto e dall’altra un uomo giovane pure con un collare.
Lamina esterna 3 – Personaggio maschile con le braccia alzate per sorreggere due animali di fantasia, aventi le zampe anteriori che terminano con zoccoli e con la parte posteriore del corpo che termina con una coda serpentiforme. Sotto c’è un lungo corpo di animale, che termina con due teste con le quali assale due uomini.
Lamina esterna 4 – Donna con tripla treccia e collare, con la mano sinistra sul petto mentre sulla mano destra tiene un uccellino. Da una parte, una donna è nell’atto di tagliare i capelli, mentre dall’altra una donna siede sulla sua spalla. Lungo il braccio sinistro di quest’ultima è un uomo messo di traverso; dall’altra parte un cagnolino a gambe all’aria. Simmetrico al primo uccellino un altro è sul lato opposto.
Lamina esterna 5 – Un uomo, con una bella barba e con tripla treccia attorno alla testa, ha le braccia alzate e le mani vuote. A suo lato destro un pugile e sul sinistro un uomo che sembra nell’atto del saltare; sotto di lui un piccolo uomo a cavallo.
Lamina esterna 6 – Donna con braccia incrociate: sulla sua spalla destra la lotta fra un uomo e un leone e sulla sua sinistra un uomo saltellante.
Lamina esterna 7 – Un uomo barbuto che con le braccia alzate, tiene con le mani per le zampe posteriori due cervi, all’aspetto morti forse per una partita di caccia.
Lamina esterna 8 – Non è stata trovata. Forse era rappresentata una figura femminile.
L’interno del calderone è formato dalle seguenti 5 lamine.
Lamina interna A – La prima lamina della corona mostra un personaggio seduto alla turca con le corna di cervo, avente un collare al collo e uno nella destra, simboli di nobiltà, mentre nella sinistra stringe il collo di un lungo serpente munito di corna di montone; come detto più sopra, è Cernunnos o Cù Chulainn. Gli fanno compagnia un cervo, un cane, due tori, forse destinati al sacrificio, un leone o altro animale, che digrigna i denti, e due leoni che lottano fra di loro. Inoltre, un personaggio sta cavalcando un pesce che qualcuno ha individuato come storione e altri come un delfino: il dubbio rimane non essendo possibile vedere se la coda sia verticale od orizzontale.
Lamina interna B – Qui è raffigurato un toro rivolto verso destra, con un uomo che lo minaccia con una spada; un cane, sotto il toro, corre verso sinistra, mentre un felino, forse un gatto, corre verso sinistra sopra il toro; queste scenetta è ripetuta in sequenza tre volte. Dei tre uomini due sono a torso nudo mentre il terzo veste una giacca. La scena forse si riferisce a un rito.
Lamina interna C – La lamina riporta il busto di una figura femminile, identificata come la dea celtica Medb, su un carro di cui sono riportate le ruote; la dea è fra due elefanti con le proboscidi rivolte verso di lei; in basso un cane, rivolto a destra, è tra due grifoni. La scena sembra voler evidenziare la natura marziale della dea e del suo possesso di territorio.
Lamina interna D – Il centro della lamina è occupato dal busto di un uomo barbuto, con un aspetto apparentemente minaccioso, con le mani alzate; sostiene con la mano destra una mezza ruota, cui è aggrappato un personaggio con sul capo un elmo cornuto e con un abito corto; al di sotto è un serpente cornuto, rivolto a sinistra che si trova fra tre grifoni, rivolti pure a sinistra, che corrono. L’interpretazione tratta dalla scenetta da alcuni studiosi è che l’individuo sia Taranis, il capo degli déi celtici, con la ruota, suo simbolo; in effetti, il dio è rappresentato sempre con una mezza ruota e, facendo riferimento a un racconto irlandese, potrebbe essere il già ricordato Cù Chulainn; il serpente con le corna potrebbe essere la dea Morrigan, mascherata da anguilla e calpestata dal personaggio attaccato alla ruota.
Lamina interna E – Secondo il parere di alcuni studiosi, a sinistra è la triste rappresentazione di un sacrificio umano effettuato con l’annegamento della vittima in una botte, a meno che non sia come la pensano altri, cioè che si tratti di un rito concretizzato dal battesimo nel calderone oppure il ritorno in vita di guerrieri morti in battaglia e immersi nell’acqua del recipiente. Ci sono poi due file di guerrieri sopra e sotto un elemento vegetale allungato. La fila superiore è formata da quattro cavalieri di cui due armati di lancia, diretti verso destra, mentre quella inferiore presenta sei fanti armati di lancia e con scudo allungato rivolti verso sinistra, seguiti da un uomo con spada appoggiata alla spalla e senza scudo, forse il loro comandante. A destra, sempre orientati verso sinistra, tre suonatori di carnix. Davanti a questa fila un cane che fa le feste oppure minaccia.
Sulle lamine costitutive del calderone sono rappresentati volti umani, maschili e femminili, guerrieri, animali veri o di pura fantasia, probabilmente divinità o scene appartenenti alla mitologia di vari popoli, perché è evidente che ciò che vi è rappresentato è una sintesi di elementi appartenenti a culture distribuite su non meno dei 6.000 chilometri che separano i Balcani dall’India settentrionale.
Malgrado i tanti tentativi fatti per giungere a un’interpretazione comune di tutto quanto è riportato nelle lamine costitutive del Calderone di Gundestrup, non si è pervenuti a un risultato definitivo e ognuno rimane nelle sue convinzioni, ritenendo che le sue siano vere e che siano gli altri a sbagliare.
Autore: Mario Zaniboni – zamar.22blu@libero.it