Archivi

Mario Zaniboni. Disco di Sabu. Dubbi irrisolti.

zaniboni

Gli scavi in Egitto non hanno mai tregua, tanto è il materiale antico che si può recuperare, studiare, valutare e restaurare per, poi, inserirlo nei contenuti nei musei archeologici a memoria per le nuove generazioni; ma talvolta capita di incontrare oggetti che non si sa in alcun modo classificare, spesso per mancanza di indizi sul luogo di ritrovamento e sulla sua funzione, tal altra semplicemente perché non si riesce a dargli una giusta collocazione temporale e giustificare la sua costruzione attraverso il suo uso ignoto.
Questo è quanto è capitato all’archeologo ed egittologo inglese Walter Bryan Emery, quando nel 1936 stava eseguendo una campagna di scavi a Saqqara, nella sepoltura definita matata (caratteristica tomba egiziana a forma di piramide tronca) di Sabu, personaggio poco conosciuto, se non che era figlio del faraone Anedjib e che lui non lo fu mai; comunque, si è accertato che la tomba apparteneva alla Prima Dinastia, che regnava in Egitto attorno al 3000 a.C.
Emery, all’interno della tomba, esaminò i vari locali dove trovò un corredo funerario che dimostrava quanto il defunto fosse di alto lignaggio, giacché, oltre a ossa di animali, erano vasi di pietra e oggetti di avorio; ma, quando entrò nella stanza in cui giaceva la mummia, al suo fianco trovò frammenti rocciosi che, a prima vista, davano l’impressione di essere le parti costitutive di un oggetto rotondo; questo destò curiosità dello scopritore e ne stimolò il desiderio di approfondirne la conoscenza.
L’oggetto petrograficamente è uno scisto, una roccia formata da piccole lastre che le dànno la possibilità di sfaldarsi in corrispondenza dei loro piani; la loro formazione è dovuta al fatto che, in condizioni di elevate temperatura e pressione, i cristalli di mica presenti abbondantemente nell’argilla si orientano, dando luogo ai piani di scistosità, appunto.
La sua natura, pertanto, è di una fragilità estrema e, di conseguenza, la sua lavorazione è altamente difficoltosa, essendo elevato il pericolo di rottura.
I frammenti furono messi insieme, al punto giusto, e alla fine si ebbe sotto gli occhi un disco, al quale è stato dato il nome di “Disco di Sabu”: il diametro è di 61 centimetri, lo spessore di un centimetro abbondante ed un foro centrale rialzato ha il diametro di 10 centimetri. Alla distanza angolare di 120° l’una dall’altra, sono tre aperture strane (o lobi, che dir si voglia) che formano una figura a trifoglio; naturalmente, il tutto ha destato una grande perplessità: già, ci si chiese come e con quali mezzi fosse stato costruito ed a cosa servisse.
Che la sua lavorazione sia avvenuta in un passato lontano lascia forti dubbi, giacché, stando alle conoscenze dei metodi e dei mezzi a disposizione degli Egizi, limitati ad arnesi di pietra o di rame, sembra di poter affermare che essi non erano in grado di effettuarla, anche perché, tornando per un momento sulla natura della roccia, con quell’attrezzatura sembra impossibile lavorarla in quella maniera senza romperla. Per quanto attiene a cosa fosse ed a cosa servisse, qualcuno ha parlato di un incensiere, ma non tutti hanno accettato tale ipotesi, cercando, al contrario, di saperne di più.
Trattandosi di un oggetto appartenente ad una persona di elevato lignaggio, sicuramente era importante; e, considerata l’ipotesi secondo la quale si riteneva che l’oggetto fosse appartenente a un’attrezzatura necessaria per convogliare l’acqua, bene prezioso per l’Egitto, supponendo che il foro centrale fosse necessario per inserirvi un perno che lo facesse ruotare, non era da scartare l’idea che Sabu fosse un tecnico alla cui morte si era voluto mettergli accanto un oggetto per lui prezioso.
E, a questo punto, non sembra male rivedere il parere dell’ingegnere inglese William Kay il quale, partendo dal presupposto che gli Egizi avessero una tecnologia d’avanguardia tale da consentire operazioni complesse sulle pietre dure (ma non era uno scisto?) e che il foro centrale denunciasse un qualche uso particolare, giunse alla conclusione che con ogni probabilità il Disco di Sabu faceva parte di una lampada a olio a tre fiamme, sorretta da un palo centrale, e costruita per riti religiosi o altro.
Altre ipotesi sono state fatte, ma ci si scontra con la realtà, quando si ribadisce sempre e comunque che la natura della roccia, a meno che non fosse a disposizione una tecnologia all’avanguardia con la strumentazione adeguata, sembra impossibile che il Disco di Sabu possa avere la veneranda età sui 5.000 anni.
Del resto, se si tiene accettabile la convinzione di Erik von Daniken, che il Pianeta Terra sia stato visitato da esseri di civiltà molto progredite provenienti da altri mondi, il Disco di Sabu, come tanti altri reperti archeologici rimasti senza riconoscimenti certi su epoca e funzione, il problema sembra risolto, sì, ma solamente in merito a chi l’ha costruito, ma per il resto, buio totale.
Però, andando indietro nei secoli ed osservando ciò che gli Egiziani sono riusciti a produrre (le antiche piramidi, la sfinge, che forse è ancora più antica, e tante altre costruzioni e strutture) senza che si sia riusciti fino in fondo a chiarire le modalità ed i mezzi di esecuzione, ci si può chiedere se anche il Disco di Sabu, senza disturbare gli alieni, non possa essere stato lavorato seguendo le stesse tecniche.
In ogni modo, tutta la faccenda resta nel suo vago alone di dubbio, che non è per nulla dissipato, tanto che, per qualcuno, le… “mandrie di bufale” sono sempre presenti e pimpanti.

Autore: Mario Zaniboni – zamar.22blu@libero.it

Segnala la tua notizia