Nel 1955, gli archeologi Georg Buchner e Carlo Ferdinando Russo, stavano facendo ricerche e scavi nella necropoli di San Montano presso Lacco Ameno nell’isola d’Ischia (colonia greca denominata Pithekoussai), e si imbatterono in una tomba a cremazione forse appartenente ad un ragazzo fra i dieci ed i quattordici anni.
Approfondimenti effettuati da un gruppo di studiosi, coordinato dalla bioarcheologa e bioantropolaga Melania Gigante, arrivarono alla conclusione che nessuno dei resti ossei rinvenuti nella tomba appartennero ad un ragazzo, bensì erano di tre persone adulte, oltreché di animali vari, quali uccelli, capre ed un carnivoro, forse un cane.
Il corredo funebre era ricchisissimo e comprendeva crateri dell’isola Eubea e locali, “oinochoi” e “skyphoi” (vasi di forma diversa, ma sempre destinati a contenere acqua o vino), “ariballoi” (fiaschette per contenere unguenti o profumi), una “fibula” (spilla di sicurezza). E fra i vari reperti rinvenuti in quella tomba, di cui diversi anche molto preziosi, trovarono un “kotyle”, cioè una piccola tazza di 10 centimetri decorata con motivi geometrici, che serviva nella quotidianità per libagioni, importata dall’isola di Rodi insieme con una partita di vasi ricolmi di unguenti orientali e sicuramente preziosi. Esami mirati fecero concludere che la sua produzione avvenne verso la fine dell’VIII secolo a.C., fra il 735 e il 720 a.C.
Tra le numerose conquiste che il mondo greco ha raggiunto e ci ha tramandato, un posto di assoluta rilevanza spetta alla scrittura. I Greci recepirono la scrittura di tipo alfabetico dai Fenici, adattarono il sistema alle caratteristiche della propria lingua, arricchendolo, rielaborandolo ed infine diffondendolo sin nel lontano Occidente, che nel frattempo stavano arditamente colonizzando. Grande importanza nella storia dell’alfabeto e della sua diffusione è rivestita dalle genti che abitavano l’isola di Eubea, i Calcidesi e gli Eretriesi. Essi, audaci navigatori, per primi si spinsero verso le coste italiche fondando proprio ad Ischia quella che viene considerata la prima colonia greca occidentale: Pithekoussai, già nella prima metà dell’VIII sec. a.C.
Proprio qui è stato rinvenuto la cosiddetta “Coppa di Nestore” che ci riporta alle radici della nostra civiltà. Si tratta di una Kotyle tardogeometrica, ossia una particolare forma potoria di coppa che i greci utilizzavano per bere durante il simposio. Essa è di manifattura rodia ed è stata importata a Pithekoussai dove ha ricevuto la famosa iscrizione graffita che reca i segni caratteristici dell’alfabeto euboico.
La coppa fu portata alla luce dall’archeologo di origine tedesca Giorgio Buchner e proviene da una tomba a cremazione di un ragazzo di 10-14 anni. Questa scoperta si rivelò eccezionale sotto molti punti di vista e contribuì a gettare luce sulla fase più antica della colonizzazione greca e sulla storia arcaica in generale.
In primo luogo dobbiamo osservare che la cosiddetta “coppa di Nestore” faceva parte di un corredo più ampio che comprendeva, tra gli altri reperti: crateri euboci, crateri locali, oinochoai, skyphoi, una fibula di argento con arco serpeggiante ed una serie di preziosi aryballoi protocorinzi.
Un corredo molto ricco che costituisce una eccezione rispetto agli altri, pur generosi, rinvenuti nella necropoli di San Montano. Ma non finisce qui. Questo corredo rappresenta un “kit” completo da simposio, pratica riservati ai maschi adulti, da cui erano esclusi i ragazzi di così giovane età, quindi questi oggetti non sono stati realmente usati dal fanciullo. Si ritiene che la sua famiglia, occupante certamente una posizione elevata nella gerarchia sociale della nascente colonia di Pithekoussai, abbia voluto esibire il proprio status e ricompensare il povero fanciullo donandogli tutta una serie di oggetti che potessero essergli utili nella sua vita ultraterrena, in una sorta di simposio nell’aldilà.
Ma l’aspetto che ha reso questo reperto celeberrimo in tutto il mondo è la sua iscrizione. Essa, ad oggi, è considerata la più antica attestazione di scrittura alfabetica in lingua greca.
Il testo consiste in tre versi di carattere epicheggiante (il secondo e il terzo rigo dei perfetti esametri, il metro usato per l’epica omerica). Infatti in esso è citato il saggio re della sabbiosa Pilo cantato nell’Iliade, il quale possedeva una meravigliosa coppa. L’iscrizione, in alfabeto euboico, è retrograda, ossia si legge destra verso sinistra. Da quando questo testo è stato pubblicato per la prima volta, nel 1955, molti insigni grecisti hanno proposto vare interpretazioni, ma la soluzione continua a rimanere incerta.
Comunque, indipendentemente dal significato del contenuto nei tre versi, resta il fatto che essi rappresentano l’esistenza di intense relazioni commerciali fra l’Isola di Pithekoussai ed il mondo allora noto, vale a dire la Grecia, la Sardegna, l’Etruria, Cartagine, le regioni italiane del meridione. Del resto, Buchner ritenne che Ischia fosse la prima colonia ellenica nata nella penisola italiana.
Qui si vuole proporre una possibile traduzione:
Come si può notare nel primo verso l’iscrizione presenta una lacuna ed a seconda della sua integrazione possiamo avere una sfumatura di significato diversa. Le possibilità interpretative sono sostanzialmente due.
Una prima tesi vuole che Nestore sia il proprietario della coppa. In questo caso l’integrazione da fare sarebbe quella del verbo essere: “Io sono la coppa di Nestore…” Il Nestore della coppa sarebbe dunque un omonimo del re di Pilo ed avrebbe giocato su questa omonimia nel comporre l’epigramma.
L’altra possibilità vuole che venga fatto dal proprietario dell’oggetto un confronto, una sorta di sfida, tra la sua coppa pithecusana e quella omerica di Nestore. Quindi l’anonimo autore dell’iscrizione vuole dirci che la sua coppa ha su quella ben più celebre di Nestore un vantaggio: quello d’ispirare desiderio d’amore in chi ne beva.
Comunque stiano le cose, di grande interesse è l’allusione a Nestore. Essa dimostra che il testo omerico, o almeno la tradizione che lo ispirò, era già nota nell’VII sec. a.C. nel mondo greco d’Occidente. Ci testimonia di un uso colto della scrittura già in epoca così arcaica; inoltre testimonia come i pithecusani avessero già familiarità con questo nuovo strumento comunicativo e di come esso fosse diffuso nelle sfere alte della società, ossia tra gli aristocratici che partecipavano al simposio. Dobbiamo immaginare che proprio in occasione di uno essi il proprietario abbia inciso e declamato questi suoi versi, mentre inebriati dal vino, i suoi simposiasti lo ascoltavano divertiti e si lasciavano prendere da Afrodite. Un reperto straordinario che ci fornisce una straordinariamente vivida istantanea di un mondo lontano nel tempo, in cui Eros e Thanatos si intrecciano in uno straordinario racconto che è quello delle origini della nostra civiltà occidentale.
Tre versi che inneggiano all’amore e alla bellezza che chi berrà da quella coppa avrà con sé. Sono varie le ipotesi relative al frammento, quelle più accreditate si riferiscono a Nestore eroe acheo le cui gesta sono narrate nel XI libro dell’Iliade. Secondo qualche altro studioso, invece, Nestore è proprio il bambino sepolto che in antichità avrà forse avuto un ruolo centrale nella società pitecusana.
“Di Nestore …. la coppa buona a bersi. Ma chi beva da questa coppa, subito quello sarà preso dal desiderio d’amore per Afrodite dalla bella corona”.
Si propone questa traduzione del più antico frammento di poesia greca incisa sulla coppa di Nestore, una piccola coppa, decorata a motivi geometrici, custodita oggi presso il Museo Archeologico di Pithecusae, situato nel complesso di Villa Arbusto di Lacco Ameno, nell’isola d’Ischia, costruito nel 1785 da Don Carlo Acquaviva, duca di Atri e fortemente voluto da Buchner.
Autore: Mario Zaniboni – zamar.22blu@libero.it