«I recenti ritrovamenti archeologici avvenuti a Sassari, che ha riscoperto i resti sepolti del proprio Castello, un tempo in verità non troppo amato, a differenza degli inediti entusiasmi mediatici con i quali frammenti di questo stesso monumento sono stati salutati oggi al loro primo apparire sotto l’azione delle ruspe, suggerisce una più ampia riflessione, da estendersi anche ad Alghero, dove, senza particolari rumori dei media, da circa dieci anni l’archeologia urbana sta scrivendo pagine nuove della storia della città catalana.
La curiosità ed il largo coinvolgimento provocati dalla scoperta sassarese ha trovato una del tutto indipendente ed autonoma risposta – in tempo reale – nell’eccezionale afflusso di visitatori registrato pochi giorni fa dagli scavi dell’area dell’Ospedale Vecchio di Alghero, che sono stati resi visitabili al pubblico in occasione della manifestazione “Monumenti Aperti”.
Sia pure con non poche differenze, in entrambe le circostanze è comunque emerso un forte bisogno di conoscenza da parte della società civile, che oggi reclama sempre di più una condivisione della conoscenza delle tracce e dei documenti materiali del proprio passato, quali emergono dagli scavi; essi vengono giustamente percepiti da non pochi cittadini non come una proprietà privata degli addetti ai lavori, ma come parte integrante della propria personale identità, che è comunque da conoscere, sia nei suoi aspetti positivi, sia in quelli eventualmente percepiti come più negativi.
Anche gli stessi “ospiti”, come talvolta in Sardegna chiamiamo i turisti, accolgono con gioia queste opportunità ed aperture, quali occasioni di capire meglio il significato dei luoghi urbani che stanno visitando. Cittadini e turisti testimoniano, con una diretta partecipazione, da differenti punti di vista, che il momento è davvero maturo per una discussione sul rapporto tra la città e la conoscenza archeologica del passato urbano.
E’ l’uso pubblico della storia a fare da scenario a questi comportamenti, un uso che se viene talvolta richiesto dalla società civile, rimanda ad una dimensione di “archeologia pubblica”, alla quale ben difficilmente può sfuggire oggi chiunque lavori nel settore dell’archeologia urbana.
L’onda degli entusiasmi per le scoperte archeologiche in città e per una partecipazione emotiva del poter vivere in diretta il procedere degli scavi, mette dunque a fuoco una percepibile domanda di storia e di conoscenza, peraltro ormai resa obbligatoria dalla legislazione vigente e radicata nella coscienza di molti amministratori.
Il consenso della società civile, disposta ad accettare i disagi della privazione degli spazi se è risarcita e ripagata da un elemento di cui avverte la carica emozionale ed il potenziale culturale, deve comunque essere gestito al di là della facile spettacolarizzazione del ritrovamento.
Trasformare una scoperta archeologica di un certo rilievo per la storia di una città in un evento mediatico può essere un passaggio utile per far emergere nei cittadini sensibilità sommerse per la storia dei luoghi dove trascorrono la propria esistenza e quindi un utile momento di crescita e di maturazione della società civile.
Tuttavia, il vero problema, affinché l’incontro tra l’archeologia e la città produca durature ricadute culturali, economiche ed in termini di trasmissione della memoria collettiva di quanto è conservato nel ventre delle nostre città, appare la definizione di un progetto e di una strategia complessivi che abbiano al centro il tema dell’uso pubblico della storia della città, raccontata a partire anche dalle sue tracce sepolte.
Un progetto fondato non sulla mera contemplazione di frammenti del passato, ma al contrario sul concetto di valore e sui significati delle strutture riemerse dal sottosuolo, viste in quanto documenti e testimonianze: una mancata riflessione su questi ultimi due aspetti, il valore ed il significato (storico e comunicativo), così come i maldestri tentativi di valorizzare ad ogni costo, di recintare ad oltranza trasformando il rudere antico in un triste e raro animale da zoo, di sottrarre spazi senza ripagare, sono i più sicuri lasciapassare per il fallimento di un possibile nuovo e positivo rapporto tra archeologia e città.
Solo quando emerga un senso storico forte, come sta avvenendo oggi con le indagini in corso nell’area del quartiere medievale ebraico di Alghero, dove l’Amministrazione comunale, i progettisti e gli archeologi dell’Università di Sassari stanno lavorando per la migliore valorizzazione di quelle testimonianze (e in questo senso il ritrovamento del Bastione dell’Esperò Real in Piazza Sulis è da considerarsi davvero un’occasione perduta), solo là dove i segni abbiano una incisiva capacità di comunicazione, si può proporre alla città di accettare la modificazione di una parte di un paesaggio urbano in genere consolidato.
L’archeologia, per produrre conoscenza, provoca ferite, che vanno richiuse o lasciate aperte solo se vi siano elementi in grado di far comprendere l’anatomia della città ed in quelle situazioni dove la progettazione della memoria possa, con rinnovate funzioni, disegnare nuove forme fisiche e mentali di attraversamento della profondità del tempo e delle “diverse” città che tutti i giorni inconsapevolmente viviamo, evocate da segni, frammenti e dai loro significati».
Autore: Prof. Marco Milanese, Ordinario di Archeologia Università degli Studi di Sassari
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