“Nello scritto si afferma il distacco del linguaggio dal suo effettivo essere parlato. Nella forma dello scritto, tutto ciò che è tramandato è contemporaneo di qualunque presente. In esso si ha una peculiare coesistenza di passato e presente, in quanto la coscienza presente ha la possibilità di un libero accesso a ogni tradizione scritta. Senza più dover ricorrere alla trasmissione orale, che mischia le notizie del passato con il presente, ma rivolgendosi direttamente alla tradizione letteraria, la coscienza comprendente acquista un’autentica possibilità di spostare e di allargare il proprio orizzonte, arricchendo così il proprio mondo di tutta una dimensione nuova”. A scriverlo era Hans George Gadamer nel suo autorevole testo “Verità e Metodo”.
Libri, giornali, pagine web, annunci pubblicitari, scritte murali: la nostra vita è inondata di messaggi veicolati da segni grafici che hanno una corrispondenza fonetica e che, attraverso la pratica ermeneutica, quotidianamente rendiamo comprensibili a noi stessi e integriamo nel nostro universo culturale.
Scriviamo e siamo letti, leggiamo e comprendiamo e niente di tutto ciò ci sembra magico.
A fondamento della dibattito filosofico sul linguaggio, tradizionalmente viene posto il Cratilo platonico, ma, secoli e secoli prima, un popolo sostentato dal limo del letto del Nilo già si era interrogato sulla funzione della parola: gli egizi.
Questo popolo di agricoltura e pastorizia, di piramidi e segreti, precursore delle più grandi civiltà, credeva che nella parola risiedesse un magico potere. Il nome, per gli egizi, evocava, creava, plasmava, soprattutto “era” la cosa nominata con cui esso stabiliva un nesso inscindibile, un legame fortissimo.
Tanto era ritenuta importante la parola quanto lo era la scrittura.
In Egitto non erano degli uomini qualunque a vergare la “carta” ottenuta dalla pianta del papiro. A questa alta funzione erano preposti gli scribi, gli adepti alla conoscenza dei segreti della scrittura che in virtù di tale status godevano di onori, stima e grande considerazione, ed erano annoverati tra le figure emergenti dei ranghi del regime faraonico ed apprezzati come valenti maghi dalla maggior parte della popolazione.
Chiunque avrebbe potuto aspirare a questa professione; non erano previste discriminazione di classe. Ad operare la differenza sarebbero stati l’impegno e la solerzia con cui gli alunni avrebbero conseguito la loro preparazione spesso legata alla più importante istituzione scolastica egiziana, la cosiddetta “Casa della Vita”, il cui più famoso dislocamento era situato ad Abydos.
Oltre al compito di svolgere le intricate pratiche della burocrazia ed a rivestire incarichi di ogni sorta, gli scribi svolgevano anche la funzione di sacerdoti e ciò può farci comprendere meglio come la scrittura, al pari della parola, fosse ritenuta depositaria di una valenza esoterica e della capacità di operare profondendo un’aurea dai prodigiosi effetti che potevano essere benigni o maligni a seconda di ciò che veniva rappresentato e di come lo era.
Dai ritrovamenti scopriamo che il geroglifico che rappresentava animali velenosi, quale ad esempio quello usato per designare lo scorpione, veniva spesso raffigurato senza il pungiglione per prevenire i danni che questo avrebbe potuto arrecare. Anche la pratica della damnatio memoriae di faraoni degeneri o di altri meschini esponenti del regno insigniti di alte cariche passava attraverso la cancellazione di epigrafi o scritte celebrative perché, il potere magico della scrittura era un onore che non sarebbe stato confacente ad uomini da dimenticare. Per la stessa ragione i re si attribuivano nomi molteplici e di buon auspicio che emanassero forza e contribuissero ad aumentare la loro potenza: chiamarsi “Protettore dell’Egitto” avrebbe significato esserlo realmente. Il nome contenuto dal cartiglio era fondamentale per un sovrano, e questi ne possedeva ben cinque.
Lo scriba, per tutti i compiti che svolgeva e per la sacralità della scrittura veniva considerato protetto dal dio lunare Thot, il mago degli dei, che veniva rappresentato con una testa di Ibis o sotto le spoglie del babbuino, ed era ritenuto il creatore della parola e della scrittura cui era collegata anche la dea Seshat, la prima nella casa dei libri, che si preoccupava di annotare ciò che accadeva negli anni di regno dei faraoni con dei pennelli che rappresentavano l’eternità, l’inchiostro che indicava il tempo, ed infine col calamaio che doveva indicare i giubilei festeggiati dal sovrano.
Ad ulteriore riprova di quanto, presso quel popolo, la scrittura fosse considerata strumento di magia, se mai ce ne fosse bisogno, vi è il fatto che spesso si ritrovano gli strumenti tipici dello scriba, stilo e calamaio, nei corredi funebri scoperti nelle aree tombali. Ad essi veniva infatti attribuito un significato di eternità.
Non erano solo gli egizi ad investire i segni grafici di un alone sacrale; anche altri popoli condividevano, in aree molto lontane dal continente africano, ed in tempi diversi, lo stesso riverenziale rispetto.
Prima di comprendere la vasta portata dello sciamanesimo nell’antica religione Maya, gli studiosi avevano ravvisato nella figura dello scriba un personaggio di poco conto ed appartenente ad un rango sociale collocabile poco al di sopra di quello di un rustico contadino. A gettar nuova luce sulle credenze di quest’antico popolo i cui primi insediamenti sono rintracciabili sin dalla metà del II millennio a.C, furono due scoperte archeologiche entrambe avvenute nella località di Copán.
La prima è da mettere in rapporto con il cosiddetto “Quadrilatero della Sepoltura”. La facciata dell’edificio principale dell’agglomerato, che ospitava una camera delle udienze posta in cima ad un’elevata scalinata, era scolpita con le immagini di scribi effigiati mentre tenevano in mano calamai e calami da copista. Sulla sommità è visibile un palco scolpito da cui, a detta degli esperti, i patriarchi degli scrivani tenevano udienze, decretavano i loro verdetti nei contrasti familiari, mettevano in vigore le norme comunitarie e praticavano i riti pubblici del salasso. Il nome di uno di questi autorevoli scribi, Mac Chaanal, è addirittura giunto fino a noi superando le epoche.
La seconda scoperta, tale da ribadire l’importanza della scrittura anche presso quest’antica civiltà, è da ravvisarsi in una tomba situata all’interno della piramide principale sulla Plaza Grande di Copán, dove è stato rinvenuto il corpo di un uomo affiancato da un bambino sacrificato in onore della sua morte. Questo ritrovamento aveva fatto inizialmente pensare alle spoglie di un re e, solo il rinvenimento di oggetti interrati all’interno del sepolcro, quali dieci contenitori di vernice, un codice deteriorato ed un bacile con l’immagine dello scriba-sciamano, hanno portato alla certezza che il defunto, in vita, avesse intrapreso la professione dello scriba: ci si trovava di fronte ad una piramide eretta in celebrazione del divino potere della scrittura.
Dopo quanto abbiamo appurato non potremmo non evidenziare come di certo quest’attività dovesse avere un ruolo molto importante anche all’interno della società Maya, nonostante questo popolo la ritenesse di minor pregio rispetto al potere divino della pittura e della scultura, ed all’arte in genere.
Anche all’interno del druidismo, religione celtica basata su caratteri quasi esclusivamente orali, la scrittura, aldilà dello scarso uso che se ne faceva, era considerata magica, inquietante, addirittura pericolosa, e forse proprio questo è uno dei principali motivi per cui non veniva quasi mai adoperata.
Presso i druidi era possibile pronunciare un’invocazione, una maledizione contro un individuo, esecrarlo oralmente, perché si riteneva che il sortilegio potesse essere annullato con delle pratiche contrarie. Scrivere l’anatema, al contrario, sarebbe equivalso a conferirgli carattere eterno e irrevocabile. La scrittura, in virtù della sua potenza e della sua pericolosità doveva essere patrimonio di pochi e venire adoperata molto raramente, solo nei casi in cui si palesava la necessità di agire sull’eternità.
Per terminare questo lungo excursus sul rapporto tra magia e pratica scrittoria non potremo dimenticare il popolo vichingo, padre dell’alfabeto runico.
Le rune contenevano il segreto stesso dell’esistenza, poiché in ciascuna di essa era racchiusa una delle essenze fondamentali della vita e del mondo, benefica o nefasta. Più che segni alfabetici esse erano considerate alla stregua di vere e proprie entità magiche di origine divina. Sulla pietra runica di Noleby, ritrovata in Svezia e datata attorno al VII secolo, si legge quest’incisione: “Rune dipingo, che derivano dagli dei”. Anche su altre pietre di età coeva sono rintracciate espressioni analoghe.
La stretta connessione delle rune con la magia si palesa anche dall’etimologia del nome: rún (f., pl. rúnar) significa infatti “segreto”, “misterioso”. La runa è perciò il segno grafico, e in quanto tale visibile, in cui il potere della formula magica veniva a concentrarsi. E’ significativo ai fini del nostro discorso notare come mai nessuna lingua germanica abbia usato la parola “runa” per indicare le lettere latine o greche. Ciò è indicativo del fatto che venivano sentite come depositarie di una natura differente, prive di ogni carattere magico.
Le rune, che in un carme venivano fatte risalire ad Odino, il quale secondo la leggenda le avrebbe tratte dal cranio di Heiodraupnir e dal corno di Hoddrofnir (entrambi probabili appellativi del sapientissimo gigante Mímir) venivano spesso incise o dipinte dal mago-sacerdote col sangue.
Intese come simbolo di una conoscenza superiore, collegate alla sapienza delle origini, pregne di una forte valenza esoterica, erano espresse nella capacità dello scrivere che veniva perciò considerata divina. Si riteneva che ogni manifestazione della vita fosse collegata ad esse, dunque, cariche di forza, nel bene e nel male, venivano mescolate all’idromele perché si pensava che fossero in grado di trasmettere sapienza e potere.
Si comprende, perciò, come la capacità di interpretare le rune e di usarle correttamente fosse dagli scandinavi considerata estremamente importante.
Ancor nel Cinquecento europeo il timore ed il sospetto con cui era guardata la scrittura denota, per converso, l’importanza che le era attribuita: lo scritto era il veicolo delle decisioni della giustizia e ribadiva la dipendenza economica dei più poveri e perciò veniva sentito come strumento di discriminazione e veicolo delle vessazioni. Scrive Roger Chartier: “Il segno che tutti possono fare, prova il rispetto per l’eguaglianza originaria; la firma, che distingue coloro che sanno scrivere, è indice del ripudio della regola comune”.
La connessione tra il mondo della magia, o del potere in genere, e quello della scrittura, nei secoli, come abbiamo appurato, è sempre stata strettissima, eppure spesso diamo per scontata questa pratica dalle origini antichissime e non ci accorgiamo di quale onore sia poter prendere parte al suo mondo fatto di segni grafici e misteriose influenze.
Fonte: Redazione
Autore: Barbara Carmignola