Il bellissimo vaso che vedete riprodotto in figura ha una storia avventurosa.
È stato ricavato da un unico pezzo di alabastro 5200 anni fa da un artigiano di Uruk, grande città della Mesopotamia meridionale, come dono alla dea Inanna, conosciuta in seguito come Ishtar dai popoli semitici del Medio Oriente e Afrodite dai Greci.
Posto all’interno dell’Eanna, il complesso templare dedicato alla dea, vi rimase finché Uruk non venne definitvamente abbandonata intorno al 200 d. C. ponendo fine ad una storia durata più di quattromila anni.
Il Vaso di Uruk venne riportato alla luce nel 1934 da Julius Jordan, un archeologo tedesco. Era ridotto in pezzi, ma venne restaurato e collocato nel museo di Bagdad (Iraq). Lì il nostro vaso superò indenne la seconda guerra mondiale, i conflitti arabo-israiliani, due golpe militari… ma non la caduta del regime di Saddam Hussein. Il saccheggio della città che ne seguì nell’aprile del 2003 coinvolse anche il museo e il vaso venne trafugato.
Il suo destino era finire al mercato nero dei reperti archeologici, ma per nostra fortuna la polizia irachena riuscì a recuperarlo. Il vaso era nuovamente ridotto a pezzi, e venne consegnato agli archeologi italiani dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro.
Tutto bene quel che finisce bene, quindi? Niente affatto. Come ben sapete la situazione precipitò velocemente in una sorta di guerra civile ed il personale italiano dovette evacuare in tutta fretta. Solo nel 2013 riuscì a tornare e a finire il lavoro, restituendoci il Vaso di Uruk in tutto il suo splendore.
Ma non è la sua bellezza o la sua storia l’aspetto più affascinante del Vaso. Ciò che lo rende unico nel suo genere è che esso ci fornisce la più antica rappresentazione di una organizzazione sociale.
Sulla sua superficie sono state scolpite a rilievo quattro strisce orizzontali che rappresentano un corteo recante offerte alla dea Inanna. Si tratta di una processione di cose, animali e persone definita secondo un preciso ordine gerarchico. La prima banda raccoglie immagini di coltivazioni di orzo alternate a canneti sovrastate da quella di un gregge di ovini, maschi e femmine alternate, a rappresentare le risorse naturali e coltivate che permettevano la sopravvivenza della comunità.
Nella seconda fascia una fila di persone trasporta otri e vasi colmi delle offerte per la dea. Si muove in senso opposto al gregge dalla fascia precedente, dando l’idea del dispiegarsi della processione lungo la via che porta alla divinità. Le persone sono prive di indumenti: secondo testimonianze di epoca più tarda, la nudità è simbolo di umiltà e di un basso ceto sociale quale quello dei contadini, dei servi e degli schiavi.
La terza fascia accoglie una figura riccamente vestita, accompagnata da altre figure più piccole e vestite più semplicemente, nell’atto di porgere le offerte alla dea, unica figura femminile della scena.
Grazie anche a testimonianze scritte successive il significato delle scene è abbastanza chiaro ed è duplice. Da un lato il Vaso ci racconta che ciò che viene coltivato, allevato o semplicemente raccolto è destinato alla Dea; dall’altro che esiste una precisa gerarchia per cui vi è un solo intermediario tra lei e l’uomo: l’En, il re-sacerdote della città, aiutato in questo dai suoi collaboratori che hanno un ruolo più alto dei semplici contadini e produttori.
È la prova che già nel 3200 a.C. la comunità che viveva nella città di Uruk si era data una struttura sociale ben definita, con una chiara specializzazione delle attività svolte da ciascuno e che vedeva accanto ai “produttori di risorse” la figura degli “amministratori” che gestivano la produzione e la redistribuivano.
Si tratta di una organizzazione più complessa rispetto a quella dei villaggi formati da nuclei famigliari autosufficienti nel produrre quanto necessario al sostentamento, ma indispensabile per realizzare le attività che comportano la messa in comune di forza lavoro, come la costruzione dei canali di irrigazione, vitali nella regione, o per l’organizzazione della difesa del territorio e della vendita del surplus di produzione che necessitavano di personale specializzato.
Il “collante sociale” per convincere i produttori a versare la maggior parte del loro raccolto (in media i 2/3) arrivò dalla religione. I frutti del loro lavoro erano destinati al dio protettore della città, che aveva concesso loro la terra e fornito gli strumenti per lavorarla. La divinità li avrebbe redistribuiti in base alle esigenze della comunità intera; unici titolati alla raccolta delle offerte, alla loro conservazione e al loro utilizzo erano quindi l’autorità templare e il re-sacerdote.
Concetti complessi che l’autore del Vaso di Uruk è riuscito a rendere con mirabile semplicità nella sua ordinata e armoniosa processione verso la Dea.
Autore: Luca Vinotto
Fonte: Gruppo Pubblico Archeologie – feb 2022