Tutto bene in Iraq. La guerra è finita (George W. dixit), i pozzi hanno ripreso a pompare greggio, l’embargo sta per cessare. E adesso pare addirittura che nel Museo nazionale di Baghdad stiano rientrando i capolavori archeologici scomparsi nella parte finale del conflitto.
La notizia è dell’altro giorno, ripresa dal New York Times: gli uomini dell’intelligence Usa avrebbero individuato alcuni nascondigli, nei sotterranei del museo e in altri depositi della capitale, recuperando 700 oggetti che si credevano perduti e che invece erano stati messi in salvo per tempo dai previdenti iracheni. Si può tirare un sospiro di sollievo? Forse. O forse no.
A un mese esatto dal grande saccheggio, è il momento di fare il punto su ciò che è stato fatto, su ciò che si pensa di fare per porre rimedio alla vergogna, “il più grande disastro per il patrimonio culturale dai tempi della seconda guerra mondiale”, come ha detto il direttore del British Museum Neil McGregor.
A Baghdad, dopo l’appello dei mullah nelle moschee e l’amnistia promessa ai saccheggiatori pentiti, molti iracheni si sono presentati per restituire il maltolto. Lo conferma Paolo Battino, del Centro Scavi di Torino, che la scorsa settimana è stato in Iraq con una piccola delegazione italiana incaricata di preparare il terreno all’intervento umanitario votato dal Parlamento: “Me lo ha detto il direttore generale delle Antichità irachene, Jabir Khalil Ibrahim. Venivano da lui con gli oggetti rubati spiegando che li avevano presi per metterli in salvo, “è il nostro contributo per il bene dell’Iraq””. Piccole cose, in realtà. Con una rilevante eccezione: la grande statua di Salmanassar III, del IX sec. a.C., restituita in tre pezzi. E gli altri capolavori?
Il vaso di Warka.
Sempre la scorsa settimana, in un meeting di archeologi e responsabili dei maggiori musei del mondo, ospitato al British, il numero due della Direzione delle Antichità irachene, un cristiano dal curioso nome di Donny George, ha presentato una lista di 21 pezzi mancanti di valore inestimabile. Qualche giorno fa, in un convegno dell’Interpol a Lione, Ibrahim ha integrato l’elenco: 38 pezzi. Almeno uno di questi, forse il più prezioso, il cosiddetto vaso di Warka (l’antica Uruk di Gilgamesh), sarebbe stato recuperato. La notizia viene dall’America. “Ma è incontrollata e io non ci credo”, obietta Antonio Invernizzi del Centro Scavi, appena designato da una speciale task force costituita presso la Farnesina a guidare la parte culturale (assegnata all’Italia) del programma di aiuti internazionali (un riconoscimento per il ruolo avuto dall’istituto torinese in quarant’anni di attività in Iraq). L’archeologo si spiega: “Non è possibile che il vaso sia stato portato via da ladruncoli: è alto un metro, pesante, cementato al pavimento”. Resta l’eventualità che si trovasse al sicuro nei depositi: “Ma anche questo non è credibile, Donny George, che ho visto a Londra, non ne sapeva niente: sarebbe come se il direttore del Louvre ignorasse dove si trova la Gioconda”.
C’è grande confusione sotto il cielo di Baghdad. E anche sotto altri cieli. In parte si può spiegare con la confusione che nasce nella comunicazione delle notizie da un capo all’altro del mondo (gli americani, per esempio, hanno parlato di un vaso del 5000 a.C., mentre il reperto – un oggetto rituale che racconta per immagini la principale festività religiosa di Uruk, connessa all’agricoltura – risale a 5 mila anni fa, precisamente al 3200 a.C.). In parte c’è l’ombra della cattiva coscienza: “Gli americani devono dire qualcosa perché tutto il mondo li accusa di non aver difeso il museo. Si arrampicano sui vetri”, sostiene Invernizzi.
Da Londra Donny George aveva puntato il dito: “Il 10 aprile, il giorno dopo la presa di Baghdad, avevamo chiesto ai soldati Usa di intervenire: sarebbe bastato che spostassero di 50 metri i loro carri, la risposta fu che non avevano ricevuto ordini”. Così adesso, anche nel campo dell’archeologia, americani e iracheni si guardano in cagnesco. Giuseppe Proietti, che la scorsa settimana ha fatto parte della delegazione italiana in visita Baghdad, riferisce che John Limbert, responsabile del settore culturale dell’Orha (Office of Reconstruction and Humanitarian Assistance) gli ha chiesto di mediare con gli iracheni: “Li trova freddi”, dice. “E lo credo!”.
Ma il 10 aprile, probabilmente, i capolavori se n’erano già andati: due giorni prima, ha raccontato Donny George, alcuni membri della guardia di Saddam avevano fatto irruzione nel giardino del museo, costringendo gli impiegati a fuggire e cominciando a sparare sui soldati americani. È stato allora che i pezzi più importanti sono spariti? Il sospetto è stato rilanciato proprio ieri, in un briefing, dal capo del Pentagono Donald Rumsfeld. Rimane la speranza che i reperti fossero stati messi al sicuro prima della guerra. Nei depositi blindati della Banca nazionale, per esempio, si sa che erano stati riposti gli ori delle regine assire di Nimrud: ma, secondo una voce proveniente dalla Francia, pare che qui si sia presentato un bel giorno uno dei figli di Saddam, portandosi via tutto. Altri furti sono segnalati nei musei di Mosul, di Ctesifonte, nel sito di Nimrud.
Milioni di dollari Per quanto riguarda Baghdad, Ibrahim ha ridimensionato le cifre catastrofiche iniziali: adesso si parla di un migliaio di oggetti perduti, tra quelli rubati e quelli distrutti. Ma il danno resta enorme. E appare sempre più chiaro che i capolavori sono stati sottratti su commissione. Lo dicono tutti, lo conferma Proietti, che sabato scorso ha visitato il museo: “A terra sono stati trovati mazzi di chiavi, un tagliavetro. I ladri sapevano quel che volevano, e sapevano come prenderselo”.
I ladri professionali, almeno. E adesso? Roberta Venco, anche lei del Centro Scavi, ha partecipato questa settimana a Lione alla riunione dell’Interpol e a quella successiva dell’Icom (International Council of Museums): “Si è discusso se riproporre una banca dati con tutte le foto e le descrizioni degli oggetti mancanti, sul modello del “Brila” elaborato dal nostro istituto dopo la guerra del ‘91”.
Era l’indicazione emersa a metà aprile in una riunione parigina dell’Unesco. “Ma alle forze di polizia non serviva: si è scelto di stendere una “red list” per categorie di oggetti, così ogni volta che viene intercettato un pezzo sospetto si blocca tutto e si consultano gli esperti”. Basterà? Tanti auguri, ma l’impressione è che si stiano chiudendo le stalle dopo la fuga dei buoi. Nei meeting di Lione si è denunciata anche la totale assenza di controlli alle frontiere irachene, si è parlato dei giornalisti stranieri fermati dai giordani con i bagagli pieni di antichità. Che cosa succederà quando torneranno indietro i soldati, che è impossibile controllare? Nonostante tutto, c’è chi rimane (vuole rimanere) ottimista. È Giorgio Gullini, il padre fondatore del Centro Scavi, vero motore della presenza italiana in Iraq: “I capolavori trafugati sono oggetti molto grandi, non si possono tenere nascosti. E valgono milioni di dollari. È possibile che ci sia qualcuno disposti a sborsare certe cifre per poi non farli vedere a nessuno?”.
La domanda resta senza risposta. Speriamo che abbia ragione lui.
Fonte: La Stampa
Autore: Maurizio Assalto
Cronologia: Arch. Partico-Sasanide