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GRECIA. Venere di Cnido: la provocante scultura che rivoluzionò l’arte greca.

A modo suo Dame Mary Beard, cattedratica di studi classici al Newnham College di Cambridge, è famosa in Gran Bretagna quanto Vittorio Sgarbi in Italia. Ambedue sono immediatamente riconoscibili, entrambi sono molto presenti nei media, entrambi sono esponenti della cultura nella vita quotidiana. Oltre a essere accademica di fama internazionale e stimatissima studiosa della storia romana con la rara capacità di saper scrivere sia per i colleghi accademici sia per il lettore comune, la Beard è l’ironica e umana protagonista di programmi televisivi sul mondo classico e di «Civilisation», il remake della famosa serie della Bbc. Ma è anche una femminista dichiarata e rifiuta di acconciarsi e vestirsi in modo conformista. Questo ha suscitato sui social centinaia di commenti pesanti, offensivi e perfino pornografici che, seppur sgradevoli, hanno avuto il merito di stimolare uno dei primi dibattiti sul ruolo dei social nel definire e giudicare comportamenti e costumi.
La Beard è curatrice per l’antichità classica del «Times Literary Supplement», tiene un blog e commenta la politica e la cultura su Twitter dove è seguita da 225mila persone, il che la rende un’influencer di non poco potere. Le sue opinioni sono liberali e pragmatiche e il suo modo di dialogare con il pubblico è sempre cortese, ma non esita a difendere punti di vista che altri non osano esprimere: per esempio che gli americani abbiano in parte provocato gli attacchi dell’11 settembre con il loro comportamento in Medio Oriente. Alla fin fine è una personalità ammirata sia dal pubblico sia dal potere e questa duplice stima le è valsa il titolo di Dame, l’equivalente di cavaliere in Italia.
Anna Somers Cocks

Gli scrittori greci e romani esaminarono ripetutamente l’idea che la più raffinata forma d’arte fosse una perfetta illusione della realtà o, in altre parole, che l’apice del risultato artistico consistesse nell’assenza di un’apparente differenza tra l’immagine e ciò che l’immagine riproduce. L’aneddoto più famoso a questo proposito riguarda due pittori rivali della fine del V secolo a.C., Zeusi e Parrasio, che indissero una gara per decidere quale dei due fosse il più talentuoso.
Zeusi dipinse un grappolo d’uva così realistico che gli uccelli ci volarono sopra per mangiarlo. Era un trionfo di illusione che prometteva una vittoria certa. Parrasio, invece, dipinse una tenda, che Zeusi, incoraggiato dal suo successo, gli chiese di spostare per vedere il dipinto da essa celato. Secondo Plinio, che riportò l’episodio nella sua enciclopedia, Zeusi si rese immediatamente conto del suo errore e concesse la vittoria all’avversario, dicendo: «Io ho illuso solo gli uccelli, Parrasio ha illuso me».
Di questi dipinti non è rimasta traccia, ammesso che siano mai esistiti al di fuori dell’aneddoto. Ma abbiamo le prove di una statua in marmo che fu oggetto di una storia simile, sebbene molto più inquietante. Si tratta della scultura realizzata dall’artista Prassitele intorno al 330 a.C., un’opera oggi comunemente nota come Afrodite di Cnido, dal nome della città greca sulla costa occidentale dell’attuale Turchia in cui la statua venne originariamente collocata.
Venne celebrata nel mondo greco come una pietra miliare dell’arte, essendo la prima statua di nudo femminile a grandezza naturale (tecnicamente, in questo caso, una dea dalle fattezze umane), dopo secoli nei quali le sculture avevano sempre raffigurato la donna vestita, come la Phrasikleia. L’originale di Prassitele è andato perduto da molto tempo; la storia dice che venne in un certo momento portato a Costantinopoli, dove andò distrutto in un incendio nel V secolo d.C. Ma era così famosa che ne vennero realizzate in tutto il mondo antico centinaia di versioni e repliche, a grandezza naturale e in miniatura, e venne raffigurata anche su alcune monete. Molte di queste versioni sono giunte fino a noi.
Ai giorni nostri, in cui immagini di nudo femminile sono ovunque, è difficile rendersi conto di quanto audaci e pericolose dovessero sembrare ai primi osservatori nel IV secolo a.C. che certamente non erano abituati all’esposizione in pubblico del corpo femminile (in alcune zone del mondo greco le donne, almeno quelle delle classi sociali più elevate, andavano in giro velate). Anche la definizione «prima donna nuda» minimizza l’impatto, suggerendo che si trattasse di uno sviluppo estetico o stilistico dell’arte greca che alcuni si attendevano.
In effetti, qualunque cosa abbia determinato l’esperimento di Prassitele (questa è un’altra «rivoluzione greca» di cui non comprendiamo completamente le origini), attraverso di esso cancellava le convenzioni artistiche e di genere praticamente nello stesso modo in cui molto tempo dopo hanno fatto Marcel Duchamp o Tracey Emin trasformando un orinatoio in opera d’arte, nel caso di Duchamp, o realizzando, la Emin, la tenda intitolata «Everyone I Have Ever Slept With». Non sorprenderebbe affatto che nella città greca di Kos, su un’isola al largo della costa turca, il primo cliente al quale l’artista propose la sua nuova Afrodite possa aver risposto «No, grazie» e scelto al suo posto una più sicura versione vestita.
Ma la semplice nudità non era che una parte del problema. Questa Afrodite era diversa, in un modo decisamente erotico. Le mani da sole ne sono la prova. Stanno cercando di coprirsi per pudore? Stanno indicando la direzione in cui l’osservatore vuole vedere di più? O si tratta soltanto di una provocazione? Qualunque sia la risposta, Prassitele aveva stabilito quella relazione tesa tra una statua di donna e un presunto osservatore maschio che non è più scomparsa nella storia dell’arte europea, cosa di cui alcuni antichi osservatori greci erano del tutto consapevoli. Perché fu un aspetto della scultura trasposto in un memorabile racconto di un uomo che trattò questa famosa dea di marmo come se fosse una donna in carne e ossa. È narrato per intero in un curioso testo scritto intorno al 300 d.C.
Lo scrittore riporta quella che quasi certamente fu un’immaginaria conversazione fra tre uomini, un celibe, un eterosessuale e un omosessuale, che intrattengono una lunga e delicata discussione su quale sia, ammesso che la decisione sia possibile, il miglior genere di atto sessuale. Nel corso della discussione arrivano a Cnido e si recano ad ammirare la più importante attrazione della città, ovvero la famosa statua di Afrodite nel suo tempio. Mentre l’eterosessuale è attratto dal suo volto e dal suo lato frontale e l’uomo che preferisce l’amore dei ragazzi osserva con lascivia il suo lato posteriore, notano una piccola macchia nel marmo sulla parte superiore di una coscia della statua, nella parte interna vicino alla natica.
Atteggiandosi a conoscitore d’arte, il celibe inizia a tessere le lodi di Prassitele che era riuscito a nascondere quella che doveva essere un’imperfezione del marmo in un posto così difficile da notare, ma la sacerdotessa custode del tempio lo interrompe per dire che qualcosa di molto più sinistro si nasconde dietro la macchia. Lei spiega come in passato un giovane si fosse perdutamente innamorato della statua e fosse riuscito a farsi rinchiudere con lei tutta la notte, e come la piccola macchia fosse l’unica traccia rimasta della sua libidine.
L’eterosessuale e l’omosessuale rivendicano entrambi gioiosamente che ciò prova il loro punto di vista (il primo facendo notare come anche una donna di pietra possa accendere la passione, l’altro come la posizione della macchia dimostri che la stessa sia stata presa da dietro, come un ragazzo). Ma la custode prosegue con il tragico epilogo: il giovane impazzì e si gettò da una scogliera.
Questa storia nasconde diverse scomode morali. È un monito sui guai che può comportare la concezione rivoluzionaria della scultura greca, di quanto sia seducente confondere il confine tra un marmo che riproduce realisticamente un corpo e un corpo realmente vivente. E allo stesso tempo, quanto ciò sia pericoloso e insensato. Mostra come una statua di donna possa portare un uomo alla follia, ma anche come l’arte possa fungere da alibi per quello che fu, diciamolo pure, uno stupro. Non dimentichiamolo, Afrodite non fu mai consenziente.

Questo brano è tratto dall’ultimo libro di Mary Beard dal titolo Civilisations. How do we look. The eye of faith (Profile Books), non ancora uscito in italiano.

Autore: Mary Beard

Fonte: Il Giornale dell’Arte numero 397, maggio 2019

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