Fili e nodi colorati al posto di lettere o simboli: la civilta’ degli Inca non usava pietre o fogli di pergamena, ma affidava la propria ‘scrittura’ a curiosi manufatti che da anni impegnano gli studiosi in una possibile traduzione.
I ‘khipu’, corde cui venivano legati fili con tanti nodi, sono quanto rimane dell’unica tra le grandi civilta’ dell’eta’ del Bronzo – quella Inca appunto – ad aver lasciato architetture monumentali ma nemmeno un carattere scritto.
A differenza dei popoli della Mesopotamia, dell’Egitto e della Cina. A riportare l’attenzione sul valore dei fili con i nodini come codificazione scritta, e’ il libro ‘I Khipu degli Inca’, di cui parla oggi il New York Times e che uscira’ negli Usa il prossimo mese.
In esso, Gary Urton, docente della Harvard University, smonta la tesi difesa da alcuni studiosi, secondo cui i khipu sarebbero serviti semplicemente per tenere il conto delle nascite e delle spese: cioe’ una sorta di pallottoliere a fili. Urton sostiene invece che si tratta di una prima forma di scrittura, che affidava la parola non a segni grafici, ma a un codice binario tridimensionale simile al linguaggio dei computer, espresso attraverso i nodini.
La lettura dei fili annodati, una volta decifrata, potrebbe rivelare racconti dell’impero Inca, il piu’ esteso nell’America prima della conquista degli spagnoli nel 1532.
Gli archeologi sperano nel ritrovamento di una sorta di stele di Rosetta sul modello di quella che permise di interpretare i geroglifici egiziani. La ‘Rosetta’ potrebbe trovarsi nei documenti spagnoli della prima eta’ coloniale, con traduzioni in castigliano dei khipu. Almeno cosi’ spera Urton.
Fonte: CulturalWeb 13/08/03
Autore: Redazione
Cronologia: Arch. Precolombiana