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Francesco MALLEGNI, I resti umani da scavi archeologici.

Frizzone_neonato

Leggo con stupore, costernazione e un notevole fastidio le dichiarazioni alla stampa del dott. Giulio Ciampoltrini sui resti umani da scavi archeologici.

A mio avviso antropologi e studiosi non possono non ribellarsi ad affermazioni di questo tipo: “Sono dell’idea che i corpi, anche se di età passate, dovrebbero rimanere sottoterra e non esposti, a meno che non ci sia una notevole rilevanza antropologica …” (ipse dixit).

Sembra, dunque, che si debba evitare di scavare i resti umani per una sorta di pietas, ecc. ecc. (frase che Egli non è insolito pronunciare), mentre i loro corredi vanno scavati, eccome!

Inoltre, dato che Egli afferma testualmente “a meno che non ci sia una notevole rilevanza antropologica”, cosa si deve ritrovare, un pitecantropo?

Da parte mia già fatto con l’Homo Cepranensis, antico di 800-900.000 anni fa, il primo uomo, per ora, arrivato dall’Africa in Europa, rinvenuto ormai una quindicina di anni fa a Ceprano e pubblicato, vivaddio, non su uno “strillozzo” ma su rivista internazionale. Spero che il dott. Ciampoltrini, e chi la pensa come lui, possa capire che tutti i reperti umani antichi sono degni di attenzione, perché, come archivi biologici, raccontano, a chi sa interpretarli, la storia di una vita, e molti scheletri raccontano la storia di una popolazione. E spero sinceramente di aver male interpretato le dichiarazioni pubbliche del dott. Ciampoltrini perché con un simile modo di pensare, e di procedere, ci sarebbe da ridisegnare l’intera metodologia della ricerca archeologica.

Però c’è un fatto, documentato e documentabile, che non posso sottacere e che dimostra che il dott. Ciampoltrini da tempo non apprezza (o apprezza assai poco) l’antropologia. Voglio raccontarlo in breve.

Alcuni anni fa ci fu,  proprio a Lucca,  un convegno sullo stato della ricerca archeologica e antropologica nel territorio. Presiedeva la sessione il prof. Renato Peroni, ordinario di Protostoria europea all’Università di Roma. Un collaboratore di Ciampoltrini mostrò le immagini di uno scavo, diretto dallo stesso Ciampoltrini, effettuato su sepolture di epoca romana in cui ci si era presi cura dei corredi lasciando i resti umani a deteriorarsi in fondo alle fosse. Gli contestai la metodologia d’intervento e ricevetti una risposta stizzita secondo la quale i resti scheletrici nell’ambito di uno scavo contano poco o nulla. Non ebbi esitazioni: replicai che si trattava di una posizione degna di un preilluminista. Il compianto Prof. Peroni, dal canto suo, si alzò di scatto, osservò con una certa veemenza che le affermazioni di Ciampoltrini vanificavano i principi basilari impartiti per 40 anni ai suoi allievi (alcuni dei quali oggi occupano posti di primo piano nelle Università e nelle Soprintendenze) e abbandonò sdegnato la presidenza del convegno. Solo la stima e l’amicizia mia e del Prof. Peroni verso il prof. Zecchini, coordinatore del convegno, resero possibili il ritorno alla ‘normalità’e  la ripresa delle relazioni congressuali.

Se persiste una mentalità del genere (intendo dire di certi archeologi) i poveri scheletrini del Frizzone, sono sicuro, andranno incontro a una seconda morte: la  loro immaturità ossea avrebbe consigliato un restauro repentino, dato anche l’ottimo e meticoloso scavo che ne aveva fatto il Prof. Zecchini, e non l’abbandono in un deposito esposto alle variazioni climatiche più deleterie. Se mi sono offerto di prendermene cura, subito e gratis, non è certo per una qualsiasi forma di interesse personale, ma perché ‘debbono’ essere salvati. Non è un problema di soldi e di tecniche: i primi non occorrono, le seconde credo che siano acclarate. Se il dott. Ciampoltrini avesse qualche dubbio sulle mie qualità scientifiche e professionali, ecco in sintesi i miei titoli: 44 anni di carriera universitaria fino alla titolarità della cattedra di Antropologia; 360 pubblicazioni su riviste specializzatissime, anche straniere, con tanto di ‘referee’ e ‘impact factor’; sei manuali per studenti universitari sulla disciplina antropologica, che mi onoro di aver professato e che credo di aver onorato.

Concludo con una osservazione connotata da un forte grado di ovvietà ma che, evidentemente, per certuni ovvia non è: i reperti umani sono a tutti gli effetti, anche giuridici (D. Lgs. 42/2004) ‘beni culturali’ ancorché del tipo biologico.

L’archeologia non è fatta solo di cocci, i quali almeno un tempo, mi si insegna, venivano utilizzati per pavimenti detti in “cocciopesto”; a meno che (ogni tanto mi piace scherzare) non si voglia trasformarla in una scienza esclusiva da chiamare ‘Cocciologia’. Ritornando serio, dico con forza che noi tutti abbiamo il dovere civico, scientifico, intellettuale e morale di preservare anche il patrimonio antropologico (compresi i morticini del Frizzone) per le future generazioni, ma con i fatti e non con le dichiarazioni d’intento.

 

Autore: Francesco Mallegni, Professore Ordinario di Antropologia, Università di Pisa

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