L’Italia è un palinsesto vivente, luogo di stratificazioni culturali e archeologiche come pochi altri al mondo, ma troppo spesso capita che a questa densità di ‘presenze’ – segmenti di quella multiforme identità che ha permesso al nostro Paese, come al resto d’Europa, di essere quello che sono – non corrisponda una loro reale conoscenza da parte dei cittadini. E così a molti succede di non sapere che in Puglia, a Foggia, c’è il sito archeologico neolitico più grande d’Europa. Inoltre è anche visitabile, cosa alquanto rara per i resti della civiltà che muovendo dal Mediterraneo orientale ed approdando circa 8 mila anni fa in aree come il Tavoliere delle Puglie, l’Irpinia, la Basilicata e la Sicilia, ha cominciato a diffondersi in tutta Europa a partire dal VI millennio a.C.
La Puglia è quindi annoverabile tra le prime “stazioni di sosta” europee di questo flusso umano caratterizzato dall’uso di strumenti in pietra levigata accanto a quelli paleolitici in pietra scheggiata, ma soprattutto da un cambiamento fondamentale consistito nel passaggio dell’uomo dalla sua condizione di cacciatore-raccoglitore a quella di produttore del proprio cibo con l’allevamento del bestiame e l’agricoltura.
Uno dei siti più interessanti, tra i tanti che in Puglia testimoniano questa fase della civiltà umana, è senza dubbio il Parco Archeologico Passo di Corvo, a Foggia, in contrada Arpinova, che con i suoi 130 ettari di estensione è considerato il più grande villaggio neolitico finora riportato alla luce in Europa.
Il sito fu scoperto casualmente nel 1943 durante una spedizione aerea della Royal Air Force, una missione esplorativa alla ricerca di obiettivi nemici da bombardare. Le immagini ricavate dal fotografo di bordo misero in evidenza nell’area di Arpinova una singolare concentrazione di sentieri, mura, fossati, recinti, incavi, destando il sospetto della presenza di una enorme base sotterranea.
L’analisi delle immagini fatta da esperti fugò però quel sospetto e tutto il materiale venne archiviato finché dopo la fine della guerra esso fu ripreso, e ampliato con nuovi rilievi, dagli studiosi tra cui l’archeologo e capitano inglese John S. P. Bradford (1945) e successivamente l’archeologo rumeno Dinu Adamesteanu (1962), che analizzandolo riuscirono a localizzare oltre duecento insediamenti neolitici, come quelli ubicati lungo gli affluenti del Triolo, lungo la Salsola, il Celone, il Candelaro, il Cervaro, il Carapelle e l’Ofanto.
Circa a metà degli anni ’70 fu poi avviata una vasta campagna di scavi affidata all’Università di Genova sotto la direzione del Prof. Santo Tiné in quello che si rivelò essere il più grande tra i siti identificati in quelle foto aeree.
Furono così portati alla luce i resti di un insediamento che tra il VI e il IV millennio a.C. dovette ospitare almeno 300 abitanti, con tracce di diverse unità abitative, fossati a ‘C’ utilizzati per protezione e drenaggio del terreno attorno alle singole abitazioni, cisterne per l’acqua piovana, silos, recinti, 16 sepolture e oggetti della vita quotidiana e del culto oggi custoditi nel Museo Civico di Foggia e nel Museo Archeologico Nazionale di Manfredonia.
Non sono mancati i reperti di interesse archeobotanico come semi di leguminose e cereali, attestanti con evidenza le attività agricole dell’insediamento. Oggi il sito di Passo di Corvo è uno dei pochi parchi archeologici del Neolitico visitabili in Italia e ospita anche la ricostruzione in scala 1:1 di una capanna neolitica, con fossato e animali, volta a rievocare scene di vita domestica e agricola nell’insediamento. Il sito è facilmente raggiungibile, trovandosi poco fuori dal centro urbano di Foggia, in contrada Arpinova: basta imboccare la strada statale 89 e deviare per San Marco in Lamis, procedendo per qualche chilometro fino all’ingresso del parco.
LA “DEA MADRE” O ”SCIAMANA” DI PASSO DI CORVO
Tra gli oggetti ascrivibili a pratiche di culto, il sito di Passo di Corvo ha restituito due statuette in terracotta oggi esposte al Museo Archeologico Nazionale di Manfredonia. Si tratta di due figure femminili, alte circa 7 centimetri, di manifattura molto arcaica, una delle quali – quella di cui parleremo – ha però un suo fascino misterioso che le deriva dalla particolare espressione del volto e da una serie di segni che “non possono essere scambiati per semplici grafismi decorativi o elementi del vestiario”, ma enigmatiche simbologie sulla cui interpretazione si sono cimentati accademici e studiosi “di frontiera”, senza che di fatto possa oggi dirsi con certezza in quale delle diverse tesi risieda la verità. Ad esprimersi per primi su questa piccola scultura furono il prof. Santo Tiné, che nel 1983 pubblicò l’esito degli scavi, e la celebre archeologa lituana Marija Gimbutas, nota per la particolare attenzione prestata all’iconografia e al simbolismo del Neolitico al fine di scoprirne i significati sociali e mitologici. Entrambi notano come si tratti di una figura femminile, probabilmente una Dea Madre, con occhi socchiusi in atteggiamento ieratico, con al collo una lunga collana ricadente sul petto a sua volta contrassegnato da due piccoli seni sotto i quali figurano alcuni segni a zig-zag (presenti anche sul fianco e sulla parte posteriore) e due figure composte da triangoli contrapposti a formare come la sagoma stilizzata di una farfalla. E se la Gimbutas ipotizza che il volto sia coperto da una maschera, Tiné nota invece che c’è un segno di ocra rossa sotto la narice e ne deduce che tutta la statuetta fosse in origine ricoperta di quel colore, simbolo del sangue e quindi della vita. Quanto ai segni a zig-zag, che siano ideogrammi riferibili a bisce d’acqua o a onde, il simbolismo, secondo i due studiosi, rimanderebbe sempre all’elemento acqua che, “in quanto sostanza vitale per eccellenza, costituirebbe uno dei correlati primari della dea”. Il segno della ‘farfalla’, non considerato dal Tiné, secondo la Gimbutas rinvierebbe infine a un simbolo di rigenerazione, quindi qualcosa sempre di legato ai cicli vitali dell’uomo della natura.
Gli studiosi o appassionati di archeoastronomia, offrono invece una più complessa interpretazione della scultura in cui si fondono elementi simbolici, astronomici e mistici. Per essi la figura femminile raffigurata rappresenterebbe una sciamana, cioè una di quelle figure che nelle società tradizionali acquisiva, in seguito a un processo d’iniziazione, la conoscenza di pratiche per raggiungere stati di estasi, assumendo il ruolo di tramite con le entità soprannaturali del cielo o degli inferi, che attraverso possessione le conferivano eccezionali facoltà taumaturgiche e divinatorie. Nella statuetta di Passo di Corvo essa apparirebbe munita di un copricapo di tipo frigio, con gli occhi socchiusi in apparente stato di trance, condizione a cui sarebbe da ricollegarsi anche la traccia di ocra rossa sotto la narice che starebbe a simboleggiare la perdita di sangue dello sciamano in stato di trance, secondo un modello iconografico riscontrabile in altri siti preistorici.
Si fa inoltre notare come la donna porti una collana con ventidue grani, secondo una simbologia numerica legata al numero 11 (11 x 2) che rinvierebbe allo stato di illuminazione propria di chi riesce ad andare oltre l’apparenza e a raggiungere il vero assoluto. L’uso della collana, nello sciamanesimo, favorirebbe inoltre la concentrazione dei flussi di energia al disopra del chakra del cuore. Ma ecco che entra in gioco l’astronomia quando si passa ai segni a zig-zag che, lungi dall’essere allusioni all’acqua, sarebbero una rappresentazione della costellazione di Cassiopea, come dimostrerebbe il fatto che similmente ad essa le due figure hanno un lato più lungo dell’altro e inoltre sono speculari, come la costellazione che nel suo movimento in cielo muta conformazione da M a W.
A tale costellazione sarebbe inoltre correlato il segno della ‘farfalla’ che sarebbe senz’altro simbolo di rigenerazione, purché però completato con l’elemento della costellazione-generatrice degli spiriti umani, che in questo caso è Cassiopea (come per altri popoli erano le Pleiadi oppure Orione). Evocando indirettamente dunque una credenza presente in molte culture antiche, e ancor oggi in alcuni luoghi del Sud Italia, secondo cui l’anima del defunto assumerebbe forma di farfalla, il corrispondente simbolo tracciato sulla statuetta sarebbe da ricollegarsi allo spirito immortale dell’uomo. Formatosi nella costellazione-generatrice, questo ritornerebbe ad essa dopo la morte, secondo una semantica cosmogonica che sarebbe riscontrabile anche in una farfalla a bassorilievo presente su una stele daunia del VII sec. a.C. custodita nello stesso Museo di Manfredonia (inv. 0808), in uno straordinario esempio di continuità culturale.
Fonti bibliografiche:
– Enrico Calzolari, Davide Gori, L’impronta della costellazione di Cassiopea nel Caprione: lettura astronomica e archetipi sciamanici, Atti del 3′ seminario di Archeoastronomia, Osservatorio Astronomico di Genova, 6 marzo 1999
– Maria Antonietta F. Delpino, Vincenzo Tiné, Le statuine fittili femminili del Neolitico italiano. Iconografia e contesto culturale, in Bullettino di Paletnologia Italiana, Volume 93-94, Nuova Serie XI-XII, Roma, Istituto Poligrafico Zecca dello Stato, 2002-2003
– Marija Gimbutas, Il linguaggio della Dea. Mito e culto della Dea madre nell’Europa neolitica, Milano, Longanesi, 1990, pp. 390
– Eletta Ingravallo-Ida Tiberi, Il Neolitico salentino nel circuito internazionale di prestiti e scambi, in rivista Studi di Antichità, Congedo Editore, Galatina, 2008
– Francesca Radina, Neolitici in Puglia: ritratto di una società preistorica, in Archeologia Viva n. 176 – marzo/aprile 2016, pp. 30-37, Giunti Editore, Roma
– Santo Tiné, Passo di Corvo e la civiltà neolitica del Tavoliere, Genova, Sagep, 1983, 201 pp.
– Anna Maria Tunzi Sisto-Andrea Monaco, Il Neolitico a Foggia, in Atti del 26° Convegno Nazionale sulla Preistoria-Protostoria-Storia della Daunia, San Severo 10-11dicembre 2005, Tomo I, pp. 17-35, Archeo Club d’Italia – Sede di San Severo, San Severo, 2006
Info:
Parco Archeologico Passo di Corvo, Foggia
Contrada Arpinova – Strada Statale 89 per San Marco in Lamis
visite: +39 0881814041, +39 0881814042, +39 0881726245
Museo Archeologico Nazionale, Manfredonia – Castello Svevo-Angioino – Piazzale Ferri, 1
Fonte: www.famedisud.it, 18 nov 2019